martedì 29 dicembre 2009

Sul "Secolo" Mio padre era bellissimo, anzi due

Sul "Secolo" di oggi Roberto Alfatti Appetiti, parlando di uno dei veri gravi problemi di questo Paese (il Guerin Sportivo che non è più settimanale) cita "Mio padre era bellissimo", e pure una mia frase. Anzi due.

http://robertoalfattiappetiti.blogspot.com/2009/12/contro-la-crisi-il-guerin-sportivo.html
Se qualcuno volesse leggere per intero il mio pezzo dedicato al Guerin (1 dicembre 2009) contenente le frasi incriminate:

domenica 27 dicembre 2009

Papa Ratzinger tirato giù per un braccio, a mio avviso è calcio di rigore

Rivediamo le immagini insieme:
inizialmente la psicolabile svizzera in divisa rossa con cappuccio da trasferta nero attende dietro le transenne. All’improvviso compie un balzo felino e scavalca, in quel momento pare un gatto per la rapidità del movimento. Sì, è proprio un gatto. Un compagno di squadra del Pontefice si fionda su di lei e prova a spingerla via, ma è una specie di blocco, di contatti così nelle chiese se ne vedono a decine. Ma la svizzera resiste parzialmente, e prima di rovinare sul tappeto rosso si appende al braccio di Papa Ratzinger, oramai solo davanti all’altare. Un prete giovane effeminato tra la folla si porta una mano alla bocca e fa:”Ooh”. Il Pontefice non può fare a meno di cadere, è calcio di rigore. E se vogliamo fare i pignoli, espulsione della svizzera per fallo da ultimo uomo.

lunedì 21 dicembre 2009

Sciarpe


S’innamorava delle donne da come indossavano le sciarpe. Era un amante di tipo invernale. Un giro soltanto di lana significava appena un’infatuazione. Ma con due volteggi la situazione si faceva seria. Due volteggi volevano dire che il colore imprigionato nel rettangolo lungo lungo e stretto, faceva in tempo senza fretta a lasciare spazio all’altro di colore, quello più liquido dell’iride, talvolta lacrimante di freddo o delusione.
Ma dove aveva letto che una donna, per essere davvero bella, dovesse avere tra i due occhi lo spazio necessario a farcene stare un terzo?
Da quel giorno aveva cominciato ad osservare gli occhi con la matematica, calcolando in pochi secondi il grado di bellezza di uno sguardo.
(Nell'immagine: Pablo Picasso, Dora Maar con la sciarpa gialla, novembre 1936)

martedì 8 dicembre 2009

Innamorati, Pianeti, Navi

A Porto la passeggiata ellittica degli innamorati si confonde con quella dei pianeti. Così gli amanti avanzano con falcate nemmeno poco ampie, ma rallentate tra Giove e Saturno.
“Le tue sopracciglia mi interessano davvero…”
“E cosa dovrei dire io, delle piccole parentesi che ti si formano ai lati della bocca quando sorridi? Contengono le tue labbra, per una volta una cosa importante.”

Ma la verità è che dovremmo stare in vacanza di più, il resto del tempo stiamo sott’acqua.

Dalla terrazza finale si vede il fiume. Oltre il Douro l’uomo nero gigante della Sandman si nasconde dietro il bicchiere e il mantello, ma osserva.
La guida della Cantina non ne può più di raccontare sempre la stessa storia di botti e inglesi, ma è un professionista, e in qualche modo bisogna pur guadagnarsi il pane.
La domenica pomeriggio (o era sabato?) si attraversa il ponte di ferro e si arriva dall’altra parte: colline e cantine, nebbia e venditori di caldarroste. Cerchiamo una nave, ma pare siamo tutte piene.

martedì 1 dicembre 2009

Caro Guerin


La prima volta proprio non riesco a ricordarmela. Eppure M. resta sempre stupita di quante cose dell’infanzia io sia in grado di recuperare. Ma la prima volta che ho letto il Guerin, davvero non me lo ricordo. Mio padre non lo comperava, nonostante si chiamasse quasi come il giornale, quindi devo aver fatto da me, probabilmente attratto dal colore verde della scritta Guerin Sportivo, o dal guerriero in pantaloncini bianchi e canottiera verde che, con i piedi sulla V e sulla O, lancia una penna come fosse un giavellotto.
Ma ricordo tante altre volte in cui il Guerin mi ha fatto compagnia con la sua rara capacità di non fami pensare a nient’altro, specie quando i pensieri mi portavano verso luoghi che avrei preferito non visitare mai. Bastava nascondere la faccia dentro quelle pagine per dimenticarmi del resto, e chissà perché, i ricordi più limpidi di queste mie letture sono legati a momenti d’indisposizioni più o meno gravi. Dalle semplici influenze ai ricoveri ospedalieri, quando cominciavo a stare meglio lo capivo dal fatto che l’odore del Guerin mi saliva per le narici, le immagini del Film del Campionato mi facevano stare con gli occhi incollati ai movimenti dei giocatori ritratti nelle fotografie perché, nonostante tutti sostenessero il contrario, i calciatori che osservavo io in quelle pagine si muovevano, eccome. E allora da bambino broncopolmoniti, braccia rotte, risvegli post-operatori avevano come comune primo segnale di ritorno alla vita normale quello di poter sfogliare il settimanale fondato nel 1912. Perfino all’ospedale militare di Padova dove ero finito per un sorprendente quanto tardivo morbillo, che emozione avevo provato quando mia madre era arrivata da Brescia per trovarmi, estraendo dalla borsa...il Guerin Sportivo. Il mio sguardo era scivolato subito sui colleghi di malattia, per fortuna disattenti o rantolanti nelle loro febbri, incapaci così di cogliere il passaggio del Guerin dalla borsa materna al sicuro nascondiglio rappresentato dal cassetto del mobiletto a fianco del letto. Perché i giornali prestati durante la naja quasi mai tornavano, e col Guerin non me lo potevo permettere di rischiare.
Per anni non l’ho più preso il Guerin, dovevo recuperare il tempo perso e leggere libri, ed ero così stupido da pensare che una lettura escludesse l’altra. Poi ho ricominciato. Ho conservato per anni i numeri, infine li ho buttati. Forse non avrei dovuto, ora mentre scrivo penso proprio che non avrei dovuto, e figuriamoci come mi sono sentito nell’apprendere che quel bravo scrittore di Gurrado possiede tutti i numeri dal 1988. L'ha scritto lui sul suo blog. Se fossi stato più deciso e lungimirante, ho subito pensato, essendo più anziano dell’amico Antonio di ben sei anni, avrei probabilmente potuto avere ancora a casa tutti i numeri a partire, ad esempio, dal 1982. Dio, anche i Guerini di quell’estate con i cross di Bruno Conti, e le reti assurde e implacabili di Paolo Rossi. E invece no. Se un giorno (folle ipotesi) sarò ricco, me li potrò magari ricomprare da qualche collezionista, ma non sarà la stessa cosa, non saranno comunque i miei.
Ma tutto questo per dire cosa? Che il martedì era un giorno speciale. Ogni martedì era il giorno del Guerin. Martedì belli, martedì orrendi, in edicola arrivava il Guerin. Ora ci arriverà una volta al mese. Sarà un giornale di 180 pagine, annuncia il direttore Marani nel suo editoriale, con un’ampia parte dedicata dal calcio internazione, e almeno questo non mi dispiace. Vedremo. Ma mentre rileggo il corsivo di Marani (magari ho letto male dai, questa mattina alle 7.30 prima di entrare al lavoro), scorgo con maggiore chiarezza un logo rosso raffigurante una G e una S messe in centro alle righe. No, non può essere. Matteo Marani: voglio sperare che questo non sia il nuovo logo che andrà a sostituire la scritta verde e il guerriero lanciatore di penne. No Matteo, questo no.

mercoledì 25 novembre 2009

Le regole del perfetto stenditore


La prima regola dello stenditore è controllare che le bacchette o i fili dove si stendono i panni siano libere. Almeno quattro bacchette, i fili dipende dalla lunghezza. Solo dopo si può procedere e fare una lavatrice.
La seconda regola dello stenditore (qui ancora lavatore) è dividere i capi in chiari e scuri, e a seconda della quantità o del bisogno scegliere quale colore lavare per primo. In commercio esistono fogli cosiddetti “acchiappa colore” ma francamente non mi convincono, anche se funzionano. Lo trovo un aiuto superfluo, un bravo lavatore-stenditore deve esserlo senza favori.
La terza regola è non riempire troppo il cestello. Se la capienza è di 5 Kg, non vanno inseriti 5 Kg, magari spingendo con la forza lo sportello per farceli stare (questo è considerato “grave errore” e personalmente lo trovo anche di cattivo gusto). Se il cestello è troppo pieno, i vestiti o le salviette si soffocano a vicenda, pregiudicando la buona riuscita del lavaggio, o almeno il buon profumo di pulito. A tal proposito scegliete con accortezza detersivo e ammorbidente.
La quarta regola, è organizzare la propria esistenza in modo da essere in casa quando la lavatrice termina il programma. Ok questo non è sempre possibile, ma facciamo in modo che il più delle volte sia possibile. Dopo i risciacqui finali e i pochi minuti in cui lo sportello resta bloccato per ragioni di sicurezza, è preferibile essere pronti a estrarre il bucato, immediatamente. Un piccolo sacrificio, ma ne gioverà il risultato finale.
La quinta regola dello stenditore (che tale comincia ad essere da questo preciso momento) è non posizionare i panni a caso sulle bacchette o sui fili (secondo “grave errore”). Piccolo consiglio per chi non ama stirare: le camicie e le Lacoste, se messe con cura sugli omini meglio non di legno (ma dipende dal legno), con i bottoni allacciati, possono poi non essere stirate. Vengono bene, presentabili, e considerato che tovaglie, lenzuola, salviette ed eventuali fazzoletti di stoffa non si stirano (se qualcuno lo fa cominci seriamente a preoccuparsi della propria salute psichica) io direi che l’asse da stiro e il ferro potete pure lanciarli dalla finestra, senza guardare ovviamente, nella speranza di colpire dal quarto piano un politico a caso che passeggia sornione sul marciapiede, della maggioranza o dell’opposizione fa lo stesso, tanto è uguale. Guadagnerete pure spazio in casa.
Sesta regola: non sovrapponete i capi, per carità. Si asciugano male, c’impiegano di più, davvero non ne vale la pena. Vi sembrerà di aver steso più cose, ma è l’illusione di un momento. Il ritardo umido di alcuni vestiti v’impedirà di effettuare una nuova lavatrice. Dove stendereste altri panni? Se usate mollette per non far volare via i vestiti (mossa astuta se si stende all’aperto) non piantatele in centro alle magliette, resterà il segno.
Settima e ultima regola (per sposati o conviventi): mettete subito in chiaro chi porta i pantaloni in casa, ovvero chi si occuperà di fare le lavatrici. Sembra una sciocchezza, ma ne va della vostra serenità di coppia.

domenica 22 novembre 2009

La donna che amava i parcheggi (La donna che parcheggiava due volte)


Era perché in un parcheggio aveva fatto per la prima volta l’amore. Era capitato così, in modo forse poco romantico e raffinato per una ragazza della Milano bene, ma quando si è innamorati, certe cose possono accadere. Gli anni trascorsi avevano fatto dimenticare alla donna se le strisce tra le macchine erano blu, gialle oppure bianche, ma il dolce e rabbioso ricordo di quella sera, quello no, non l’aveva scordato. Per questo, a differenza della maggioranza delle persone, ogni parcheggio faceva ridestare in lei un sentimento d’amore forse idealizzato, ma senza dubbio vero, palpabile, uno dei rari appigli ai quali potersi sorreggere nella difficile esistenza di donna in carriera. Ma questo suo segreto amore per i parcheggi non l’aveva mai rivelato a nessuno.
Una volta sindaco, in buona fede, aveva deciso di riempire Milano di parcheggi, in superficie o sotterranei, convinta che il sentimento di gioia forse solo un po’ melanconico che l’accompagnava alla vista di un cartello con una P bianca su sfondo blu, fosse lo stesso che provava ogni cittadino.
E allora ok al parcheggio cratere davanti al Teatro Nazionale, ok a quello in via Buonarroti (a cinquecento metri di distanza dal precedente) ricavato genialmente al posto delle uniche due aiuole triangolari di verde presenti nella cementificata piazza, già monumento olfattivo perenne al profumo di smog. Il tutto sotto lo sguardo perplesso della statua di Verdi il quale, nei rari momenti in cui smetteva di chiedersi perché fosse finito in Piazza Buonarroti, volgendo appena lo sguardo alla propria sinistra, poteva scorgere solo una via più in là il grande parcheggio di Pagano.
Ma soprattutto la splendida basilica Sant’Ambrogio. Chi avrebbe mai potuto pensare di scavare anche lì, a pochi metri dalla chiesa, un bel parcheggio sotterraneo? Magari per unire l’amore automobilistico e carnale della giovinezza a quello più spirituale garantito dalla presenza di una chiesa.
Lei ci avrebbe pensato. La donna che amava i parcheggi, in nome dell’amore.

domenica 15 novembre 2009

Le telefonate della mia vicina di casa durante il D-Day


Le telefonate della mia vicina di casa arrivano ogni sera puntuali, diciamo verso le diciotto. Le principali trovano all’altro capo del filo sua madre. Il rapporto non è dei migliori. La figlia mi pare chiami solo per una sorta di senso di colpa. Ne farebbe volentieri a meno. Oppure è la madre che telefona, qui dall’altra parte della parete non è sempre chiaro chi squilli o faccia squillare. Un problema da risolvere. In ogni caso, la mia vicina di casa esegue sempre lo stesso tipo di telefonata. Inizio pacato, prime alterazioni vocali, aumento delle medesime sempre meno controllato, esplosione finale di grida furibonde, dettate in parte dalla sordità della madre presumo, in parte da uno squilibrio emotivo della mia vicina di casa, che a mio avviso assume qualche dose di psicofarmaci.
Così capita che mentre sto leggendo, mentre sto guardano uno degli ipnotici programmi di Rai Storia (quel canale quando vuole mi tiene imprigionato) la mia quiete sia invasa da urla prive di connessione logica, almeno per me che ho questa maledetta parete troppo sottile a farmi da argine. E allora mentre gli Alleati stanno sbarcando con epico coraggio in Normandia, dall’appartamento oltre il mio confine giungono grida come: “Il prosciuttooo! Mamma prova col prosciuttoo alloraa!” oppure, solo pochi secondi dopo: “Il neurologooo! Il neurologooo!”.
Mah, mi distraggo e penso esistano neurologi che vendono salumi.
Ma il disperato destino di quei ragazzi sulle spiagge del D-Day, alla fine mi commuove. Quelli delle prime file: folli, ubriachi, pieni di paura e vomitanti, costretti a morire da eroi, pensando solamente alle loro madri, alle loro fidanzate. Vallo a spiegare alla mia vicina.

martedì 10 novembre 2009

domenica 8 novembre 2009

Elogio della parrucchiera per donne (lettura consigliata di più agli uomini)


Ora io non so se ci siano uomini che vanno ancora dal barbiere, ma temo di sì. L’ho fatto anche io, per anni, ma poi ho cambiato decisamente strategia. Da tempo ormai vado solo dalla parrucchiera. Una parrucchiera per donne in particolare, che per fortuna accetta anche uomini, in provincia di Brescia, ma non fatemi dire di più, non vorrei trovare il negozio troppo pieno.
Quindi, cari uomini, datevi una svegliata. E non me ne voglia l’associazione barbieri italiani.

Ma insomma, uno entra dal parrucchiere per donna (e non scoraggiatevi se alcuni esercizi vi respingeranno, non possono! E comunque l’integralismo dei saloni di bellezza non è quello dei talebani), uno entra dicevo, e si trova immerso in un tepore profumato di shampoo, balsamo e donne. Già, perché ci sono quasi esclusivamente donne ad abitare questi luoghi rilassanti, dove si decide di darci un taglio. Più qualche uomo che ha raggiunto l’illuminazione.
Ecco, io entro e sono tutte donne, il che già è meraviglioso, specie per me che sto meglio con le donne, che sono cresciuto con due donne, che amo lavorare con le donne. Anche adesso, perfino nel mio lavoro di magazziniere, ho la fortuna di lavorare con quattro donne.
Una volta tolto il giubbotto di pelle vengo accompagnato ai lavandini per il momento più bello, il lavaggio dei capelli. Unica sofferenza, il collo. Dopo un po’ stare con la testa all’indietro mi fa male. Ho la sensazione che il collo possa spezzarsi e far rotolare i miei capelli con il cranio dietro nel lavabo. Ma è l’orribile pensiero di un attimo. Se l’acqua è ben miscelata, calda ma non troppo, farsi lavare i capelli da una donna è una delle cose più belle della vita. Se la donna in questione non è nervosa certo, magari perché il fidanzato la trascura o l’ha fatta arrabbiare, altrimenti potrebbe mettersi a sfregare il cuoio capelluto con troppa energia, trasformando le sue dita sottili in quelle pesanti e callose di un uomo. Ma non è questo il caso della mia parrucchiera, dove le ragazze hanno il tocco delicato. Acqua, shampoo, massaggio rotatorio, acqua, shampoo, risciacquo. Il collo adesso si spezza, me lo sento, ma resisto eroicamente, da vero uomo. La spintarella che la shampista offre alla mia nuca mi consente di tornare con la testa dritta con discreta eleganza.
Io sarei già a posto così, soddisfatto e sereno, ma uscire all’aperto in novembre coi capelli bagnati sarebbe davvero da stupidi. Quindi me li taglio pure, una regolata (dai 2 ai 4 cm, sempre meglio precisare) ascoltando le chiacchiere femminili delle signore che fanno il “colore” o altre cose sconosciute, effettuate con arnesi elettrici o rotoli di stagnola.
Anche l’asciugatura con il phon non è male, perché proustianamente mi riporta al lavaggio tiepido di qualche minuto prima, ma la vivo già con un po’ di malinconia, consapevole del suo essere inizio del mio crepuscolo in questa oasi senza tempo di donne e pace. Poi pago e le ragazze dello staff mi salutano, interrompendo ciò che sta facendo, con gli asciugacapelli che per un attimo sparano in aria calore soffiato. Ciao. Ciao ragazze, a presto, che freddo che fa fuori.

lunedì 2 novembre 2009

Alda Merini è morta il giorno prima di Pier Paolo Pasolini







Espiando con Keyra Knightley


Mi sono innamorato di Keyra Knightley mentre lei recitava “Espiazione”. Io stavo seduto sulla poltrona Poang di casa mia, e la sua magrezza mi convinceva, in particolar modo mentre si tuffava nella fontana del giardino della sua villa, ora non ricordo più il perché. Ne usciva con il vestito bagnato attaccato al corpo.
Il film andava avanti e il nostro amore si consolidava, tra reciproci sguardi pieni di passione. Poi lei faceva l’amore con un altro in biblioteca, appoggiata con la schiena a libri felici di incontrare con il loro profilo le sue scapole. Ma io mi dicevo che tanto era solamente un film. Se la donna che amavo faceva l’attrice, qualche corna cinematografica avrei pure dovuto metterla in conto.
L’uomo della biblioteca più avanti partiva per la guerra, peggio per lui. Ora Keyra non avrebbe più avuto grilli per la testa, mi auguravo, e i suoi occhi da cerbiatto, ancorché affetti da lieve strabismo, avrebbero avuto tempo solo per me. Avevo diverse tessere, l’avrei portata in una biblioteca quando voleva.
Ma poi ho iniziato a sentire un odore cattivo. Veniva dalla bocca di Keyra. Ho cominciato a muovermi nervoso sulla mia Poang. Possibile che provenisse proprio da lei? Mah. Questa idea poco profumata prendeva il sopravvento, la mia amata Keyra aveva problemi di alitosi. Incredibile a pensarci, ma ormai non avevo più dubbi. Così ho tirato un sospiro di sollievo, quando il soldato innamorato è tornato dalla guerra.

venerdì 30 ottobre 2009

La Sé. (Parlare con i morti non mi dispiace)


Parlare con i morti non mi dispiace, specie quando si fanno vivi per primi loro. E’ così che ho conosciuto diversi individui interessanti, altri meno, ma ci sta. In ogni città dove sono stato ho conosciuto morti interessanti, e spesso molto discreti. A Lisbona si sono fatti vivi vicino alla Sé, lungo la strada a sinistra della cattedrale che sale costantemente, protetta dal soffitto di cielo e fili del tram. Adesso non ricordo quanti metri avanti, ma poi sulla sinistra ho trovato questo negozio bianco, dove l’oste, vivo ma decisamente ubriaco, mi ha fatto assaggiare della Ginginha versata in una micro-tazzina di cioccolato (da buttare giù velocemente appena dopo il liquore alla ciliegia), mi ha fatto meditare due bicchieri di ottimo Porto, mi ha spiegato nel suo anglo-italo-portoghese quanto amava la musica rock, Lou Reed e i Pink Floyd, in particolare.
Le piastrelle bianche quadrate alle pareti hanno cominciato a divenire rettangoli, quadrati, cerchi. L’oste si è messo a mimare le sue canzoni preferire fingendo si suonare la chitarra muovendosi con il corpo appena il necessario, come Lou Reed. Solo io e lui, nel bianco. Quanto era buono quel Porto? Come stabilire un contatto più equilibrato con i morti, potendo scegliere con maggiore autonomia quelli più attraenti da frequentare?
Cercavo le risposte facendo girare con diverse velocità il castano e oro liquido dentro il bicchiere. Avrei voluto restare lì, seduto sui gradini della Sé, a guardare laggiù in fondo la notte, per sempre.

martedì 20 ottobre 2009

Indovinate chi si occupa di…



E’ sera, e sto seduto sul mio divano rosso che però talvolta diventa blu (nessuna magia, è dell’IKEA e ogni tanto cambio la fodera). Guardo Rai Tre, e anche la Dandini va a sedersi sul suo divano rosso, dopo aver urlato, come sempre in modo eccessivo per sovrastare il tifo sugli spalti, per presentare l’ospite di turno. Questa sera è un grande onore presentare…Eugenio Scalfariii!
Viene giù lo stadio. Fuori la voce per Eugenio Cristo Santo, e su le mani!
Eugenio si alza e ringrazia, per un attimo mi pare abbia le gambe arcuate quasi come Pierre Littbarski, ala della Germania Ovest nei Mondiali di Spagna 1982, ma Scalfari indossa un paio di jeans, e non credo abbia la medesima qualità nel dribbling. E’ comunque sicuro di sé, gioca in casa, e non ci sono arbitri.
La successiva mezzora è uno scambio di battute tra chi la pensa allo stesso modo da anni, non ha mai cambiato idea e mai lo farà, fermamente convinto che chi non la pensa come lui abbia un ritardo mentale, o sia un povero indeciso in attesa di essere illuminato dalla voce della Verità (o di Repubblica). Qualche sassata contro Berlusconi e De Bortoli (che non possono rispondere in quanto non presenti). Ma l’applausometro sale, la curva sta con Eugenio.
Osservo pietrificato, ma ormai nemmeno troppo, forse più corretto dire annoiato. Già, che palle. Ma come siamo arrivati a questo punto? mi chiedo lavandomi i denti. Non posso rispondermi, sputerei fuori il dentifricio. I programmi televisivi, i quotidiani. Schierati in modo così spudorato. Schierati lo sono sempre stati, ovvio, ma in questo modo così avvilente, mah. Repubblica però ultimamente ha una marcia in più, come se volesse recuperare in fretta il tempo perso per agguantare altri fogli che da anni si distinguono per il loro modo di fare informazione spicciola: Libero e Il Giornale, i primi che mi vengono in mente. Nella rubrica BELPAESE, ieri vergata da Alessandra Longo, l’autrice si pone un quesito che la turba: “Indovinate chi si occupa di Jack Kerouac?” Qualcuno di sinistra? No, qualcuno di destra. Vergogna. Uno di questi, il giornalista Roberto Alfatti Appetiti, stima lo scrittore norvegese Knut Hamsun. La Longo l’ha scoperto. Ci sono delle immagini girate da Repubblica Tv che parlano chiaro, dalla tasca del cappotto di Alfatti Appetiti che cammina lungo il marciapiede sbuca un libro. Si tratta proprio di "Fame", di Knut Hamsun. D’accordo, Hamsun è scrittore premiato col Nobel. Ma certo, non ai livelli di Dario Fo. Questo lo sappiamo tutti. Knut secondo la Longo credeva nel dialogo con la Germania nazista, è evidentemente questo l’aspetto più importante della sua opera, e allora ecco che il cerchio si chiude. Doppia vergogna. Indovinate chi si occuperà dello scrittore americano Jack Kerouac, la prossima settimana, a Roma?
La risposta migliore purtroppo per la Longo è lo stesso Kerouac a darla, citando Joyce:
“Non mi seccate con la politica, l’unica cosa che mi interessa, è lo stile”.

Il vecchio scrittore che amava rileggere Thomas Mann e picchiare la moglie

Nella stagione in cui la vita, un giorno dopo l’altro, lasciava spazio alle richieste sempre più pressanti della morte, il vecchio scrittore trascorreva le sue ore accarezzando l’amato gatto nella casa-buen retiro di campagna. L’ispirazione se n’era andata da un bel po’, ma qualche ex collega dei giornali per cui aveva scritto lo chiamava ancora per dei pezzi facili: un commento sul gran caldo, il ricordo di una lontana vacanza, una rapida analisi della situazione politica ed economica del Paese (effettuata sempre dallo stesso lato della barricata, quello che per anni gli aveva fatto fare la bella vita). Ma le idee, quelle importanti, non gli venivano più, e con la maturità anagrafica il vecchio scrittore si era pure reso conto che forse lui il talento non l’aveva mai avuto, ed era stato solamente bravo a intrufolarsi nei salotti giusti al momento giusto, e a oliare a dovere le penne dei critici che avevano il compito di definire “grande” ogni suo nuovo libro. No, il talento lui non ce l’aveva mai avuto, ma questa spiacevole scoperta di fine corsa se la sarebbe tenuta per sé.
Così, tra una lisciata di pelo e l’altra al felino preferito, lo scrittore pensionato poteva soddisfare con il maggior tempo a disposizione certe sue passioni che, durante la vita lavorativa passata a scrivere o a far finta di farlo, non aveva mai potuto coltivare a fondo: rileggere le grandi opere che l’avevano emozionato, e picchiare la moglie. Da Proust a Kafka, passando per Musil e Joyce. Ma soprattutto Thomas Mann. I “Buddenbrook”. Quello voleva rileggere, tra una lisciata e l’altra. Sfogliare quel (lungo) capolavoro sulla terrazza della sua casa di campagna, confezionata nel verde. E poi c’era quell’altra cosa che ora poteva fare con più leggerezza. Una cosa che gli aveva dato sempre parecchie emozioni: picchiare la moglie.
Nella frenesia della sua vita di scrittore attivo aveva potuto farlo con poca sostanza e spesso aveva dovuto sostituire pestaggi completi con un semplice urlo o un solo schiaffo o una sola stortata di braccio. Ora finalmente aveva più tempo. Per lui era sempre stato un modo per sentirsi uomo, per dimostrare chi portava i pantaloni in famiglia, con o senza cintura.
Ma se da scrittore la ricercatezza di certe frasi o la raffinatezza di certe trame gli erano sempre state estranee, come picchiatore di donna invece sapeva essere creativo. Non colpiva mai con grossolanità. Pugni nell’addome o sberle perentorie non erano nel suo stile. Il vecchio scrittore prediligeva finezze di altro tipo, come aprire le ante dei mobiletti della cucina quando la moglie si abbassava per caricare la lavatrice, di modo che rialzandosi lei avesse il piacere di sbattere la testa contro lo spigolo affilato, magari in vetro. Poi l’aggrediva immediatamente, urlandole di stare attenta. Erano queste le sue soddisfazioni. Ma c’erano della volte in cui, tornando a casa stressato e abbattuto per un premio alla carriera assegnato al rivale più odiato, lasciava perdere lo stile e pestava la moglie come capitava, un colpo meschino dopo l’altro, tra grida animalesche e subumane.
Poi ritornava in sé, e si metteva sulla terrazza a rileggere la limpida prosa di Thomas Mann.

martedì 6 ottobre 2009

Bianciardi non può più attraversare

Luciano giunto a Milano faticava a trovare il tempo giusto per attraversare. A Grosseto-Kansas City le strade erano più strette, talvolta ancora non asfaltate, il traffico inesistente. Si poteva passare da un marciapiede all’altro senza guardare. E non dovendosi particolarmente concentrare mentre i piedi pensavano a dove arrivare, la testa progettava articoli, racconti, romanzi.
A Milano niente di tutto questo. L’importante era raggiungere l’altra riva, salvi. Controllando a destra, poi a sinistra. E una volta scelto l’attimo propizio, percorrere le strisce pedonali lungo l’estremità più vicina alla macchina in arrivo, così che l’eventuale impatto con l’autovettura, consentisse al pedone di essere sì scaraventato a terra, ma con almeno una porzione di corpo sulle strisce bianche. Usando questo trucco l’automobilista milanese, autoctono o adottato, non avrebbe potuto fare nulla: quel polpaccio senza vita o ferito ancora adagiato su uno dei rettangoli bianchi rappresentava un ostacolo insuperabile per il desiderio di convincere l’assicurazione che Luciano aveva attraversato senza guardare, e nemmeno utilizzando le strisce pedonali.

Oggi la situazione del pedone a Milano è ulteriormente peggiorata. Bianciardi non può più attraversare. O può farlo solo correndo, un po’ frenato dal soprabito e dal fumo della sigaretta stretta tra le labbra come un penna che brucia. Un’ala destra coraggiosa e veloce, decisa a raggiungere ad ogni costo la riga di fondo, per crossare e mettere sulla testa del centravanti la palla giusta.
Ma il rischio è di essere travolti, anche sulle strisce pedonali o perfino sui marciapiedi, dove i pedoni camminano radenti alle pareti dei palazzi per salvare la pelle, mentre le macchine eseguono manovre sempre più complesse per incastonarsi tra alberi, cestini dello sporco, motorini, esseri umani e pali della luce.
L’automobilista milanese adesso non si ferma più. O lo fa solo nel caso d’immediato decesso dell’attraversante, interrompendo controvoglia la personale gara nel circuito meneghino per accostare insofferente, scendere dal cavallo di ferro e spostare il cadavere sbuffando, trascinandolo per i piedi, almeno fino al bordo della strada.

venerdì 25 settembre 2009

Craxi nel mio garage

Ho sognato Craxi nel mio garage. Stava nel cortile della casa di quando ero bambino. Parcheggiava l’automobile di mio padre, una Fiat 127 grigio metallizzato. Cosa ci faceva Bettino nel mio garage? Facile e scontato dire che stesse rubando qualcosa. E se anche fosse stato, dov’erano i suoi compari?
Ma Craxi invece faceva avanti e in retromarcia nel cortile di casa mia, con naturalezza, come se la macchina di mio padre fosse stata sua da sempre, anche se la testa grossa, tonda e sudata di Bettino faticava a stare dentro l’abitacolo, mostrando con evidenza il fatto che quella Fiat non gli appartenesse. Pareva voler ripassare con la vettura sull’asfalto la doppia linea curva che aveva creato con le gomme a forza di manovre, fino a renderla il più possibile scura rispetto al resto del piazzale.
Poi, vedendomi arrivare, ha tirato giù il finestrino con la manovella nera e mi ha chiesto dei consigli musicali, per un viaggio abbastanza lungo. Gli ho detto i Radiohead, anche se non li ascolto da un po’. Mi è parso dubbioso, dietro gli occhiali marroni chiari e spessi.
Ma la verità è che due sere prima avevo visto un documentario sull’ascesa e la scomparsa dei socialisti.

domenica 13 settembre 2009

I funerali di Stato di Elisabetta Canalis


Il corteo funebre si era mosso lentamente, frenato dalle migliaia di gocce di lacrime che dagli occhi lucidi avevano raggiunto il suolo di Milano. I milanesi, ma con loro gli italiani tutti, osservavano commossi, appoggiati alle pareti dei palazzi, o con i gomiti riposanti sulle transenne ornate dalle bandiere tricolori, il passaggio delle autorità giunte da Roma per rendere omaggio al feretro di Elisabetta. Nascosto tra la folla come un normale essere umano anche George Clooney, finalmente abbracciato al suo compagno, spiava per l’ultima volta quella che era stata in una lontana estate una sua avventura, un suo amore, o forse niente di tutto questo. Il serpente di auto, partito da Piazza Mike Bongiorno, si era snodato lungo Viale Pippo Baudo, fermandosi cinque minuti a causa della troppa gente nei pressi di Largo Fiorello. Dopo l’ex Parco Sempione (da poco giustamente ribattezzato “Giardini di Costanzo e Maria De Filippi”) la bara bianca rossa e verde contenente la bella Elisabetta era infine arrivata, attraverso la pedonale Via Simona Ventura, in Piazza Duomo. Qui le note dell’inno nazionale avevano fatto rabbrividire tutti i presenti, ma sarebbe più corretto dire tutti gli italiani, anche quelli che, incollati davanti ai teleschermi, da nord a sud mormoravano ciao Ely, eroina di questo Paese, non ti dimenticheremo mai, grazie.

domenica 6 settembre 2009

Attenzione: Savio vi dice chi vince lo Scudetto, chi va in B, chi tornerà in A, chi sarà il Capocannoniere


Certo poi magari in questi ultimi giorni di mercato cambia tutto e l’Inter presta gratuitamente Maicon al Bari, Eto’o e Balotelli al Livorno, Quaresma Mancini Vieira al Catania. Ma insomma, al momento questo e il mio pronostico, la mia classifica al contrario.
(Ho scritto queste righe prima del 23 agosto, lo giuro, ma le pubblico solo ora perché sono pigro, ho poco tempo quando lavoro e forse tra vivere e scrivere non ho scelto la seconda ma una via di mezzo, e la settimana prossima poi mi sposo e ho dovuto organizzare un po’ di cose).


20) CATANIA
Orfano di Zenga che ha deciso di cambiare angolo di Sicilia per vincere il tricolore, vedo il Catania come indiziato numero uno alla retrocessione. Manca un centravanti capace di garantire i gol necessari per la salvezza, a meno che Morimoto non renda costanti le promettenti qualità espresse l’anno scorso, ma è pur sempre un calciatore giapponese non di cartone animato, e allora quindici/venti gol non può farli dai. Il paio di innesti provenienti dal pur solitamente affidabile campionato argentino (il difensore centrale Spolli ad esempio, un nome che mi fa venire l’acquolina) non dovrebbero bastare.

19) LIVORNO
Dopo aver vinto con merito lo spareggio per la serie A contro una squadra lombarda della quale al momento mi sfugge il nome, il Livorno si ritrova adesso nella serie maggiore con più di una possibilità di tornare in quella minore. Diamanti e Tavano, fenomenali nello scorso campionato, potrebbero non bastare, anche se il ritorno di Lucarelli (che alla fine era ritornato sui suoi passi accettando da Parma quel miliardo che aveva rifiutato anni prima da non mi ricordo chi) potrebbe consentire ai labronici di salvarsi.

18) BARI
Con il Toro, il Bari potrebbe sembrare la rosa più forte della serie B. Purtroppo però il campionato che deve affrontare quest’anno la squadra allenata da Ventura è la serie A. Possibilità di rimanerci ne vedo poche. Ci vorrebbe un miracolo, ma nel nostro Paese ogni squadra ha il suo santo, e i miracoli spesso si annullano a vicenda. S. Nicola però è tra i più potenti, quindi magari mi sbaglio. Vedremo, la confusione societaria e l’addio del motivatore Conte complicano la situazione.

17) ATALANTA
Perso Floccari è arrivato Acquafresca e nulla in termini di qualità offensiva dovrebbe cambiare. Doni garantirà i necessari lampi di classe, almeno per una ventina di partite, centrocampo e difesa appaiono solidi. Salvezza sicura, a meno che l’esordiente in A Gregucci non combini pasticci.

16) BOLOGNA
Di Vaio non può segnare ancora 24 gol, ma Papadopolu si è dimostrato più di una volta un ottimo tecnico per chi vuole salvarsi quindi sotto le due torri sarà ancora festa in maggio, specie se Osvaldo comincia a buttarla dentro qualche volta.

15) CHIEVO
Dopo l’ottimo lavoro della scorsa stagione, Mimmo Di Carlo è chiamato a trasformare in realtà l’ennesimo sogno del Chievo. Originale quest’ultima frase, bravo Savio. Pellissier, che mi auguro abbia il buongusto di NON ripetere la tripletta contro la più bella squadra di Torino, dovrebbe trascinare il resto della (buona e ben organizzata) squadra veronese.

14) CAGLIARI
Un bravo mister: Allegri, un ottimo portiere: Marchetti. Ma l’attacco pare un po’ spuntato, salvo improbabile reintegro di Gigggi Riva. Quindi salvezza, ma con qualche patema in più rispetto alla straordinaria stagione 2008/2009.

13) SIENA
Con un altro allenatore condannerei il Siena alla B, ma Giampaolo è uno dei miei pupilli, con quel suo sigaro che mi ricorda il primo Lippi, quello magro. E con quei suoi cartelli appesi nello spogliatoio con frasi del tipo “TRASFERISCI NELLA MENTE DEI GIOCATORI LA TUA VOGLIA DI VITTORIA”. Così almeno mi pare di aver letto velocemente durante un servizio di Sky Sport (da quest’anno sono un uomo nuovo, ho Sky. Addio Bargiggia, le tue inutili e spettinate analisi tecnico tattiche non mi riguardano più). Siena salvo quindi, e la prossima stagione una squadra di livello superiore per Giampaolo, dai!

12) PARMA
Se il bresciano Ghirardi avesse prelevato il Brescia qualche anno fa, io ora starei qui a parlare della squadra della mia città in serie A. Ma il presidente dalla faccia tonda ha scelto Parma, e anche quest’estate ha speso, consegnando a Guidolin una buona rosa. Sistemata la difesa con Panucci. Il centrocampo Morrone-Mariga-Galloppa è promettente, davanti Paloschi riuscirà ad assomigliare sempre più a Inzaghi, gol compresi. E se Bojinov tornasse quello pre-infortuni…

11) UDINESE
Eccetto Quagliarella (ma è un eccetto non da poco), l’Udinese è quella dello scorso anno, da zona Uefa, o poco più sotto, cioè dove la metto io. Probabile ripetizione del consueto andamento in stile montagne russe per la squadra di Marino: partenza a razzo, flessione invernale, fioritura primaverile.

10) LAZIO
Mercato ancora apertissimo per la Lazio e tutto quindi potrebbe cambiare, con o senza i “dissidenti”, ormai un’abitudine dell’era Lotito. Ballardini da bravo tecnico saprà trovare la quadratura e le Aquile voleranno anche oltre la metà classifica, grazie ai gol di Zarate che quest’anno potrebbe anche decidere di stupire ancora di più, passando ogni tanto il pallone.

9) SAMPDORIA
Il Doria muta schieramento dopo gli anni di Mazzarri, contrassegnati dal 3-5-2. Ma i giocatori sono gli stessi, e senza coppa Uefa (difficilmente gestibile con una rosa non abbondante) penso che i blucerchiati possano anche giocare uno scherzo ai cugini genoani per quello che riguarda la supremazia sotto la Lanterna. Del Neri è l’allenatore adatto: ottimo allenatore per medie squadre. 4-4-2 con esterni offensivi, a Genova nella prossima stagione si vedrà il miglior calcio d’Italia.

8) GENOA
Medesimo impianto di gioco, spettacolare e vincente, ma Motta e Milito sono difficilmente sostituibili. Però chi propone un collaudato meccanismo di gioco solitamente riesce a mantenerlo anche cambiando gli interpreti, e gli osservatori del Genoa in questi anni hanno dimostrato di saper trovare in giro per il mondo ottimi giocatori. Mi piacerebbe se il Genoa vincesse la coppa Uefa.

7) PALERMO
Il futuro allenatore dell’Inter non riuscirà a vincere lo scudetto, ma a qualificarsi per l’Europa minore direi di sì. Di Pastore avevo parlato a certi stupiti colleghi di lavoro già nel dicembre scorso, dopo averlo visto giocare in una partita del campionato argentino. Non mi avevano ascoltato, anche perché nessuno di loro è proprietario di una squadra di calcio. E con il giovane talento argentino ci sono Cavani, Miccoli. E in difesa Kijaer, che spero si scriva così.

6) ROMA
Il grande enigma. Roma o Rometta? Rossella Sensi sta appesa con le unghie alla parete di roccia, ma le Dolomiti di Trigoria si sgretolano sempre più, e prima o poi scivolerà definitivamente, finendo lunga e diritta in una scarpata. Economicamente siamo allo sbando (uno sbando che altrove avrebbe portato forse alla scomparsa della società). Spalletti è bravo ad ottenere il massimo da giocatori sui quali non tutti scommetterebbero, si pensi al Brighi della scorsa stagione. Problemi potrebbero essercene anche in porta considerata la fragilità fisica di Doni. Il presunto undici titolare è di valore, la panchina no. Totti senza infortuni farà 19 gol, con 5/6 rigori.

5) FIORENTINA
Il tentativo di imitazione dell’Arsenal in salsa italiana potrebbe arrivare al terzo oppure al quinto posto. Zanetti e Marchionni sono due buoni innesti, ma non è possibile non avere una valida alternativa per Gilardino, il quale non potrà giocare ogni domenica e mercoledì. Jovetic, evoluzione temporale più avanzata e riccia di un giovane Antognoni, spero trovi maggiori spazi. Mi piace vederlo giocare. Un Branduardi più tecnico.

4) NAPOLI
Il presidente De Laurentis, con i suoi occhiali da sole bordati di plastica bianca come quelli di certi adolescenti che come aggravante ascoltano pure D’Agostino (non uno dei registi della nazionale ma Gigi, il temibile Dj) ha speso bene. Uno dei difensori più forti del campionato: Campagnaro. Il miglior giovane costruttore di gioco: Cigarini. Il fluidificante più sorprendente dello scorso torneo: Zuniga. Un centravanti che potrebbe anche fare 20 gol: Quagliarella. E il tutto va ad aggiungersi a una serie di giocatori ottimi (se non frequentano Night club). Il bergamasco Donadoni, che incontravo ogni domenica mattina mentre si recava con la moglie a messa quando era selezionatore della nazionale (c’incrociavamo sempre all’altezza dell’edicola di Piazza Piemonte, con il Dunadun che comperava il giornale, e io alle sue spalle che lo incalzavo telepaticamente con tre semplici parole: “Convoca Del Piero. Convoca Del Piero” potrebbe fare il miracolo, nonostante le altalene umorali di un pubblico sempre in equilibrio precario tra meraviglia e follia: Napoli in Champions League! Jamme Jamme Ja' funiculì funiculà, ueh! (mi sento in dovere di aggiungere).


3) MILAN
Huntelaar lo volevo alla Juve, ma Galliani l’ha portato al Milan. Pensavo di meritare maggiore rispetto da parte di Adriano. Se verrà fatto giocare con continuità l’olandese potrebbe diventare il centravanti rossonero del futuro. Ma tra Borriello, Pato, Inzaghi e Ronaldinho quanto spazio troverà? La squadra di Leonardo in attacco mi sembra potenzialmente molto forte, a centrocampo ottima nei titolari ma imbarazzante nelle riserve. In difesa buona centralmente se resiste Nesta e sconcertante sulle fasce dove Zambrotta e Jankulovski esalano gli ultimi, affannosi respiri di una eccellente (l’italiano) e dignitosa (il ceco) carriera di fluidificanti. I “se” nel Milan sono troppi per poter pensare di vincere lo scudetto. Se Leonardo sarà un bravo allenatore, se Nesta non avrà mal di schiena, se il mio amato Pirlo non sarà costretto a fare ancora sessanta partire all’anno…In definitiva, Milan terzo.

2) JUVENTUS
Dio, quanto ti amo squadra mia. Scusate, mi sono lasciato prendere. Perché sono juventino, mi chiedo a volte.
Spiegazione letteraria: perché Juventus è una bella parola. Une delle più belle che io conosca. La pronunci e riempie la bocca. E la sua versione abbreviata? Juve. Ugualmente bella. Quanto ha fatto la Juve? A che squadra tieni? Io? Alla Juve. E tu? Io no. Fin da quando sono bambino cammino in casa o per le strade e ogni tanto mi scopro a scandire: Juventus. Mah, sarò matto.
Spiegazione famigliare, 1: mio padre era interista. Obiettivo dei figli deve essere provare a migliorare ciò che hanno fatto i padri. Per questo sono juventino.
Spiegazione famigliare, 2: mia sorella, adolescente negli Ottanta, era innamorata come molte coetanee dell’Antonio più bello d’Italia: Cabrini. Mi convinse ad amare se non Antonio quantomeno la squadra nella quale giocava.
Spiegazione logica: la Juve di Trapattoni vinceva e vinceva. E c’era Michel Platini. Non potevo restare insensibile al fascino dei vincenti, insomma ero un bambino. Anni dopo, durante un’influenza con febbre a 39, ricordo che ebbi un tentennamento per il Milan di Sacchi, Gullit e Van Basten. Non cambiai fede, ma come non dubitare di fronte a quel gioco spumeggiante mai visto prima?
Ma torniamo alla prossima stagione. Buffon, Cannavaro, Melo, Diego, Amauri. Questa spina dorsale mi fa ben sperare, e in generale la rosa mi pare possa giocarsi lo scudetto con l’Inter, fatta eccezione per le fasce dove Molinaro De Ceglie Zebina Grygera mi lasciano, per diversi motivi, qualche perplessità. Ma il resto mi piace. Un attacco completo, un potenziale fuoriclasse come Diego (eh sì, ho detto fuoriclasse, cioè più di un campione) rincalzi adeguati a centrocampo dove il rientro di Sissoko rappresenterebbe l’ultimo tassello. L’unica incognita è il rendimento di Cannavaro, ancora uno dei migliori difensori del mondo, ma a 36 anni non potrà giocare sempre in Campionato e in Champions. E se durante una sua assenza, il pur generoso Legrottaglie si rimette a comandare alla difesa di fare il fuorigioco a metà campo manco fosse Franco Baresi? A Ciro Ferrara il compito di essere più bravo di Ranieri, di avere una mentalità più vincente, e l’augurio di essere più fortunato del suo predecessore.

1) INTER
Premetto che considero quello di questi anni dell’Inter non un ciclo vero e proprio (come i precedenti di Juve e Milan) ma un “ciclo breve”, come quelli delle lavatrici, in quanto sorto nell’estate del 2006 sulle ceneri di quel grottesco avvenimento, tipicamente gestito all’italiana, conosciuto con il nome di Calciopoli. Detto questo e non volendomi dilungare ulteriormente su questo tema, perché amo il calcio, l’Inter ha poi vinto tre scudetti, ma in Europa è stata la solita di sempre. In agosto però Moratti ha fatto un capolavoro: vendere un ottimo giocatore e prenderne cinque altrettanto validi. Per questo l’Inter resta la favorita numero uno in Italia. Se poi Mourinho riuscirà a dare un gioco alla squadra, cosa per ora mai accaduta, l’Inter quest’anno potrebbe anche arrivare in finale di Coppa dei Campioni. Poi si vedrà. Anche perdere ai rigori è comunque bello, parlo per esperienza. Inter completa in ogni reparto, forse solo davanti un eventuale infortunio di uno tra Eto’o, Milito e Balotelli (cosa deve fare questo povero ragazzo per giocare un po’ di più?) potrebbe complicare i piani tattici e mediatici dell’uomo di Setubal.

Come Capocannoniere dico Eto’o con 24 gol.
Dalla serie B verranno promosse Torino, Reggina e…Brescia dai, nonostante il mercato surreale che hanno condotto quest’anno i dirigenti delle Rondinelle.

lunedì 31 agosto 2009

Due modi di calciare un rigore


Semplificando, si potrebbe dire che ci sono due modi per calciare un rigore. Decidere prima da che parte tirare, e farlo preferibilmente angolando la direzione il più possibile e forte, oppure aspettare fino all’ultimo che il portiere si muova, e poi calciare dall’altra parte. Personalmente, ho quasi sempre scelto la prima soluzione, desiderando però nel profondo di essere un esperto della seconda. C’è qualcosa di psicologicamente più sottile, rischioso e affascinante nell’attendere le mosse dell’avversario sulla riga di porta. Ma bisogna essere molto freddi.
Ricordo una partita da bambino in cui, dopo aver realizzato i tre gol che avevano permesso alla mia squadra di passare dallo 0-3 al 3-3, l’arbitro fischiò un rigore per noi. Potrei anche tirare io, pensai, mentre tutti i miei compagni fissandomi avevano già preso per me questa decisione. Abbrancai il pallone e lo posizionai sul dischetto. Solitamente, diciamo nel 70% dei casi, calciavo dagli undici metri piazzando la palla con l’interno del piede, il più forte possibile, mirando l’angolo alla sinistra del portiere. La palla rasoterra, o a mezz’altezza. Ma rasoterra era meglio, specie se avevo di fronte un portiere alto: ora che si buttava, già era gol.
Ma quel giorno, ricordo, sistemai il pallone sul dischetto, indietreggiai di qualche passo, accennai una mezza corsa e calciai di collo, con gli occhi socchiusi, alle stelle. La partita finì 3 a 3. I compagni mi consolarono, ero comunque stato il migliore in campo. D’accordo, ma non mi davo pace, piangendo.

Quando una sera d’inizio agosto ho visto Del Piero prepararsi a tirare il rigore decisivo nella finale della Peace Cup contro l’Aston Villa ho pensato: è fatta. Stiamo calmi, non diciamolo ad alta voce, ma è fatta. Non rammentavo nemmeno l’ultimo errore dagli undici metri del capitano della Juventus, uno tra i più bravi rigoristi in circolazione. Ma Alessandro ha preso la rincorsa, il portiere ha cominciato a muovere le gambe a destra e a sinistra per infastidirlo (anche se in tono minore rispetto ai più tremanti Groobelar e Dudek, estremi difensori del Liverpool nelle vittoriose finali di Coppa Campioni 1984 e 2005). Del Piero non ci ha capito più niente e ha calciato di piatto, centrale, così lentamente che Guzan, portiere dei Villans, ha parato il pallone con i piedi. Poi Legrottaglie ha superato la traversa di qualche metro, e l’Aston Villa ha vinto, oggettivamente senza troppo merito per la qualità del gioco espresso, la Peace Cup. Ma si sa, il calcio è così.
Del Piero è uscito dal campo scuro in volto, non solo per l’errore, ma anche per come questo era maturato. Perché Alessandro, molto meglio di me, sa che, semplificando, ci sono due modi di calciare un rigore, e quando sbagli rimpiangi immediatamente di non aver scelto quello che non hai preso in considerazione.

martedì 25 agosto 2009

Gesù non è mai stato sulle Dolomiti


Gesù non ha mai visitato le Dolomiti. Se l’avesse fatto, osservando le pietre rotolate dalle cime, sarebbe rimasto certamente stupito e umanamente rattristato dal lento sgretolarsi del Latemar e del Catinaccio. Poi si sarebbe ripreso, e rimembrando i suoi poteri, le avrebbe rimesse una dopo l’altra al loro posto, con la forza del pensiero, fino a riottenere la versione originale dei gruppi montuosi conosciuti anche con il nome di Monti pallidi. Poi avrebbe camminato lungo i sentieri (il 18, il 515, il 22) arrivando a crearne anche di nuovi, più comodi e veloci, per raggiungere le numerose croci sparse, tra le quali avrebbe scelto la preferita, e definitiva.
Al Rifugio Torre di Pisa (2670 m) avrebbe scatenato l’entusiasmo degli avventori, inebetiti dall’apparire della sua figura, per l’occasione non priva dell’equipaggiamento più indicato: scarponi da montagna ai piedi, camicia, occhiali da sole, cappello. Ma Gesù avrebbe coperto con l’adesivo nero le marche, per non fare pubblicità. Dopo una cotoletta con patate saltate, o due uova con lo speck, e come dolce uno Strauben, o del gelato alla crema con lamponi caldi, Cristo avrebbe bevuto le ultime dita di birra presenti nel suo boccale. Quindi avrebbe respirato profondamente quell’aria così diversa da quella di Gerusalemme, un’aria dal sapore di panna, o di burro, ma di quello buono. Prima della discesa avrebbe riempito la sua bottiglia con l’acqua fredda di un ruscello. Infine, scortato in modo discreto da un certo numero di persone (facciamo dodici) avrebbe perso quota fino a scomparire, di domenica, tra le lunghe file di automobili dirette verso la pianura.

sabato 15 agosto 2009

La lingua italiana

Il Tg1 regala attimi di grande, amara comicità. In un servizio Bossi spinge per il dialetto nelle scuole. In quello successivo Gasparri difende la lingua italiana. Gasparri, la lingua italiana.

lunedì 13 luglio 2009

Ridere

Grillo si candida: panico nel PD. Franceschini e Bersani preoccupati, ma non dovrebbero. Anche loro fanno abbastanza ridere.

lunedì 15 giugno 2009

Le ore


Le ore in cui non c’era erano quelle che preferiva. Le ore in cui non avrebbe dovuto esserci, le ore quando gli era capitato di alzarsi presto, prima della sveglia, e si trovava ad esistere in una maggiorazione di minuti solitamente non disponibili. Le ore che in genere aveva trascorso dormendo. Ogni cambio di programma che regalava al tempo una dimensione del tutto nuova e splendente, come quando sarebbe dovuto andare a scuola, e invece no. Come quando alzandosi presto, prima della sveglia, si era fermato ad osservarsi con le braccia stranamente alzate, nel sogno turbolento, nell’attesa inconsapevole di un suono fastidioso che avrebbe sancito l’inizio delle ore in cui avrebbe cominciato ad esserci.

sabato 6 giugno 2009

Un popolo di seduti mentali


Milano, Piazza S. Fedele. Le poche panchine verso le tredici sono ambite. Figuriamoci quelle all’ombra. Se ne libera una. All’ombra. Una ragazza europea pensa di raggiungerla con passo appena più veloce del normale. Dal lato opposto della piazza, un uomo con un bambino sulla testa pensa di fare lo stesso. Dal mio punto d’osservazione, li vedo pari. Anzi, leggermente favorita la ragazza, diciamo un paio di metri. E poi l’uomo ha il peso in testa, e tiene famiglia. Lo seguono, fiduciosi del capo tribù, una moglie, un adolescente griffato, una bambina. L’uomo si volta due volte per controllare, poi scatta, vile. “Hop hop hop” canticchia quasi correndo, fingendo che questa accelerazione sia per fare giocare il figlio che porta attorno alla testa. Non è vero. Si getta sulla panchina ed è sua. Il resto della famiglia si accascia sulla pietra con le gambe, qualche secondo più in là. La ragazza europea ci rimane male, il padre italiano fa finta di niente. Gli italiani si siedono sempre, penso. La maggioranza degli italiani. Questa parte di popolo così volgare e cafona, che ha dimenticato le buone maniere più elementari, l’educazione. Questo popolo di seduti mentali che si alza solo quando ci sono le elezioni, per andare a votare Berlusconi.

martedì 2 giugno 2009

Fiori giapponesi


Il cameriere che leggeva La Capria, non lo faceva mai durante l’orario di lavoro. O meglio, lo faceva ma nella sua testa, ripassando velocemente i racconti che aveva studiato poco prima in metropolitana. C’era quello in cui…l’altro invece nel quale…Amava sottolineare le frasi che gli erano piaciute di più. Leggere così era più impegnativo (ad esempio doveva portarsi sempre dietro una matita) in particolare quando gli capitava fra le mani un libro come “Fiori giapponesi”. Avrebbe dovuto infatti sottolineare tutto. Aveva imparato allora a fare due segni, uno all’inizio e uno alla fine di ogni pagina. Non era stupido, pensava, anche se era solo un cameriere aveva pure lui le sue astuzie. Nascondeva la matita nel taschino della camicia bianca. Era la stessa con cui aveva evidenziato frasi, interi periodi. Il difficile in determinate occasioni era non confondere l’eleganza di un pensiero con un risotto, e tirare righe dritte. Non sopportava quando i segni sul libro non era sostanzialmente paralleli, quando il grigio-linea sotto le parole tremolava.
La Capria aveva esordito nel 1952 con “Un giorno d’impazienza”. Il secondo libro era uscito nel 1961, “Ferito a morte”. Cosa diavolo aveva fatto in quei nove anni? Erano altri tempi, pensava il cameriere. Erano fatti suoi. Pause così lunghe avrebbero spaventato scrittori e editori di oggi. Ma di più gli scrittori quantitativi. Quelli pronti ad elencare tronfi la loro produzione: “Ho 42 anni. Ho scritto 12 romanzi, 8 raccolte di racconti, 4236 poesie”. In fondo però queste erano cose che non lo riguardavano. Ci teneva di più a scomparire per un attimo nella cucina del ristorante, lontano almeno per qualche minuto dagli sguardi tristi del caposala, che non avrebbe mai letto La Capria in tutta la vita. Ci teneva di più a ricordarsi delle virgole, dei punti, a ripetersi nel cervello il ritmo di ogni fiore giapponese. Se fosse riuscito a farli sbocciare di nuovo nella sua testa, pensava, un giorno magari avrebbe scritto così bene anche lui.

venerdì 22 maggio 2009

Respingimenti


“Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Non amano l’acqua, molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane. Si costruiscono baracche di legno ed alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano di solito in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci. Tra loro parlano lingue a noi incomprensibili, probabilmente antichi dialetti. Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l’elemosina ma sovente davanti alle chiese donne vestite di scuro e uomini quasi sempre anziani invocano pietà, con toni lamentosi e petulanti. Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra di loro. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano non solo perché poco attraenti e selvatici ma perché si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati dopo agguati in strade periferiche quando le donne tornano dal lavoro. I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel nostro paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, attività criminali”.


“Propongo che si privilegino i veneti e i lombardi, tardi di comprendonio e ignoranti ma disposti più di altri a lavorare. Si adattano ad abitazioni che gli americani rifiutano pur che le famiglie rimangano unite e non contestano il salario. Gli altri, quelli ai quali è riferita gran parte di questa prima relazione, provengono dal sud dell’Italia. Vi invito a controllare i documenti di provenienza e a rimpatriare i più. La nostra sicurezza deve essere la prima preoccupazione”.

(da una relazione dell’Ispettorato per l’Immigrazione del Congresso americano sugli immigrati italiani negli Stati Uniti, ottobre 1912).

domenica 17 maggio 2009

Rosa Ocra Viola



La voce di Giovanni Lindo Ferretti prova a coprire gli allarmi della domenica e del sabato pomeriggio, dimenticati da milanesi fuggiti verso qualche località dove trascorrere il fine settimana. Ogni dieci minuti parte la sirena protettrice di qualche abitazione, suona per due minuti a elevato volume (quello che sento non è nemmeno nel mio condominio, è due palazzi più in là, ma la sua fastidiosa potenza arriva fino alle mie orecchie con disinvoltura) poi si spegne, poi riprende. Così da sabato pomeriggio. Nessuno interviene, nessuno fa niente. Provo a concentrarmi sulla voce di Ferretti, è meglio. Ha accompagnato la mia crescita con il suo modo di cantare unico e speciale, sopravvissuto agli anni ottanta e ai novanta, ai C.C.C.P, ai C.S.I., due gruppi fondamentali della storia musicale del nostro Paese. “Linea gotica”, per me il disco italiano più importante del decennio precedente.
“Ultime notizie di cronaca” è il primo lavoro dei PGR che mi piace davvero, Giorgio Canali alle chitarre e Gianni Maroccolo al basso. Parte di nuovo l’allarme, più forte delle campane della chiesa, più forte di tutto.
rosa ocra viola
l’ora che tutto è preghiera
l’ora che ora
l’ora che in terra scolora…

venerdì 8 maggio 2009

Fidarsi della pelle d'oca



I brividi della bellezza di esistere lo sorprendevano talvolta durante la settimana, ma più spesso la domenica. Da sempre favorevole al cielo azzurro e ai prati verdi (anche se aveva spesso desiderato di riaprire gli occhi dopo una breve chiusura e ritrovarsi a guardare alberi azzurri e aria verde) era nei giorni di festa che, come un novello Jacques Tati, amava appoggiare la bicicletta al cavalletto e mettersi sopra una panchina a lavorare al suo libro, o a leggere quelli (migliori) degli altri.
Certe mattine funzionava, altre no, ma proprio in quelle no, riceveva il regalo più grande, quello di chiudere gli occhi per qualche secondo, respirare con più attenzione, sentire la pelle d’oca che accompagna la parte finale del sospiro. Era la pelle d’oca di cui si fidava, la stessa che lo faceva emozionare per una canzone, una frase di un libro o il frammento di un film. Solo di una cosa si sarebbe sempre fidato, pensava, della sua pelle d’oca.

sabato 2 maggio 2009

domenica 26 aprile 2009

L'esperto di case


Mentre M. guarda le vetrine, io le case. Questo il vantaggio di passeggiare in due. Sono un esperto di case. Di come si contrappongono all’aria o al cielo, dei loro spigoli e balconi che scelgono un modo oppure un altro di occupare lo spazio. Accarezzando le pareti dei palazzi m’impadronisco dei quartieri, pronto a fornire informazioni al turista spaesato, alla coppia perduta. La seconda a sinistra, la prima a destra. Dopo quel condominio di mattoni rossi, non brutto rispetto ad altri suoi vicini di pietra, lei sarà d’accordo. Fermo o allontanandomi anche di poco per cambiare angolazione, per vedere fino a che punto si è pensato di costruire. Da solo, subisco e contraccambio gli sguardi degli abitanti abitudinari, piacere sono l’esperto di case, riconduco le forme geometriche alla loro essenza. C’è chi vive in parallelepipedi, chi addirittura in cubi.

lunedì 6 aprile 2009

"Fu un viaggio sfortunato: sei ore e trenta di ritardo su una tratta di sei ore e trenta." (Valerio Magrelli)





















Quando ero giovane P. mi regalava dei biglietti. Quando ero molto giovane. Su questi foglietti c’erano versi di Penna, della Szymborska, di Magrelli, di Raboni, della Dickinson, della Valduga…ma dimentico certamente qualcuno.
Sopra questi biglietti di vari colori c’erano pezzi di poesia. Alcuni mi conquistavano, altri meno, ma non importa.
Quando ero molto giovane (perché adesso sono ancora giovane, dai) giravo in bicicletta con un libro di Sandro Penna nella borsa. Scrivevo poesie, talvolta pensavo di essere un poeta, addirittura. Portavo Penna sempre con me. In caso di un bombardamento nucleare, di un terremoto capace di radere al suolo la mia città, pensavo, se fossi rimasto intrappolato da qualche parte avrei avuto almeno delle buone poesie da leggere, prima di essere salvato.

Ma ecco, volevo parlare di questo libricino di Valerio Magrelli. Leggo due righe che parlano di “Vicevita” da qualche parte, mi appunto sul quaderno o nella testa il titolo, cerco in due librerie, niente. Poi, il vantaggio di avere una fidanzata che lavora in libreria salta fuori. Mi guardi per favore se c’è? Diverse copie, ma non si trovano. Dove sono? Dopo inutili ricerche sugli scaffali, ecco dove sono: in magazzino, pronte per essere rese. Perché Magrelli non ha venduto una copia in trenta giorni e la dura legge è questa: non vendi neanche una copia in trenta giorni? Tiè! Finisci in magazzino. Un poeta in magazzino. Hai avuto la tua breve possibilità Valerio, dovevi sfruttarla molto meglio, farti notare di più dai clienti passeggianti.
Questa è la storia di come ho salvato Magrelli, che è stato rimesso in vendita grazie al mio sacrificio di 6.15 euro (ho lo sconto, voi lo pagherete 9, ma ne vale la pena). “Vicevita. Treni e viaggi in treno” mi ha ricordato “Un po’ di febbre” di Sandro Penna, raccolta di “prose e foglietti sparsi” scritti dal poeta perugino tra il ’39 e il ‘41. Uno dei libri che ho amato di più. “Un po’ di febbre” e la “Vicevita”. Due libri sottili, poco pesanti, comodi anche da portare in treno.

domenica 5 aprile 2009

Ho salvato Valerio Magrelli


Qualcosa di buono ho combinato allora tra venerdì e sabato pomeriggio, quando credevo invece di no. A breve una spiegazione o una recensione.

venerdì 27 marzo 2009

La corretta posizione rispetto alla finestra


Allora: Paul Auster scrive con davanti un muro bianco, David Grossman anche, ma se si gira verso destra può guardare fuori. Una volta aveva affittato una stanza a Gerusalemme per lavorare a un nuovo romanzo, ma la vista oltre i vetri era di tale bellezza che non riusciva più a scrivere, si era dovuto alzare per chiudere le imposte. Roberto Saviano è costretto a cambiare continuamente casa, e finestre. Da qualche giorno le mie si chiudono male. Devo fare piano, ho paura che mi resti in mano la manopola. Poi dovrei ripararle, ipotesi francamente remota. Avranno quindici o vent’anni almeno, presumo, mai state comode come finestre. Si chiudono solo alzando una leva, spingendola in avanti, aspettando un “clack”, riabbassando la leva. Ma la velocità dell’abitudine non permette sempre di avere pazienza, e quasi sempre ci vogliono due, tre “clack” fasulli prima di centrare quello corretto. Mai state comode, ma in questa settimana si sono accordate per cominciare a rompersi tutte e tre, insieme. E’ un problema quello delle finestre. Come chiuderle, come posizionarsi rispetto alla loro presenza. Io appena posso sto sempre con la finestra spalancata, ma solo nella stanza dove sto, per evitare correnti d’aria. Mi piace. E’ come essere sospesi nel vuoto, una bella sensazione, senza il fastidio di un ingombrante paracadute o di provvisorie ali. Per questo non vedo di buon occhio l’inverno. Nella mia vita mi è capitato di scrivere con la finestra a sinistra, a destra, davanti. Ma a sinistra molto più spesso. Un caso, ma se qualcuno un giorno mai me lo chiederà, io risponderò che preferisco scrivere con la finestra a sinistra aperta, il muro davanti bianco, in primavera.

venerdì 13 febbraio 2009

Diottrie



Più di tutti i poeti aveva amato un poeta di Perugia, che aveva vissuto quasi sempre a Roma. Era arrivato alla convinzione che, se avesse sempre tenuto sul comodino il libro preferito del proprio poeta preferito, allora avrebbe recuperato la vista. Le diottrie che da adolescente aveva improvvisamente guadagnato e che gli avevano permesso, su consiglio dell’oculista che lo seguiva fin da quando era bambino, di smettere con l’obbligo di portare gli occhiali, alla soglia dei trent’anni erano improvvisamente tornate a mancare, costringendolo spesso a sforzare gli occhi per leggere con esattezza certe insegne luminose che pendevano dalle pareti di palazzi che ospitavano negozi e, cioè che più lo infastidiva, per distinguere con precisione i diversi colori che ogni arcobaleno del mondo definiva sulla terra dopo una sessione di pioggia.
Così si sentiva ora, come uno che avrebbe dovuto rimettere gli occhiali, ma non ne aveva per niente voglia, e il massimo che avrebbe potuto accettare sarebbero state un paio di lenti a contatto, consapevole che non sarebbe stato lo stesso, e che le cose viste da bambino non sarebbero in ogni caso tornate con la stessa luce e dimensione di allora. Eppure, quel giorno dall’oculista era stato davvero felice. Togliersi gli occhiali significava buttare via il fastidio di essere piccoli, e diventare un ragazzo capace di leggere quello che voleva, senza il bisogno di nessuna lente tra lui e le parole. In biblioteca aveva trovato un volume di pagine in larga parte bianche, con poche righe, a volte una solamente. Di certo il poeta che stava leggendo non portava gli occhiali, era per quello che sembrava riuscire a definire in poche frasi interi universi. Oppure gli piacevano le pagine bianche, e cercava di annerirle il meno possibile.
Una volta terminato il libro non avrebbe voluto più staccarsene e aveva continuato per anni a conservarlo nella borsa, come una preghiera, come un materiale molto prezioso. L’aveva trasportato nelle città dove aveva vissuto, in quelle dove aveva soggiornato anche pochi mesi per motivi di lavoro. Aveva saputo rinunciare di volta in volta a un maglione in più, a un paio di scarpe, tutto per farci stare quelle pagine così tanto bianche. Poi, un giorno grigio e con l’aria irrespirabile, aveva smesso di leggere poesie e, trangugiato dagli eventi, aveva appena fatto in tempo a rendersi conto che faceva sempre più fatica a leggere con esattezza certe insegne luminose che pendevano dalle pareti di palazzi che ospitavano negozi.

venerdì 23 gennaio 2009

Il malumore degli edicolanti quando comperi il giornale da un’altra parte


La vita di C. non era stata certo ricca di avvenimenti paranormali, fatta eccezione per quella volta che, da bambina, aveva visto un’edicola di giornali volare fuori dalla finestra. Era seduta sul divano in attesa che la madre in cucina finisse di fare qualcosa, probabilmente preparare una torta, e con le dita faceva avanti e indietro lungo una delle linee di velluto marroni chiare e scure che lo componevano il divano, avvolta in quella specie particolare di assenza che, da bambini, funziona da spartiacque tra un’idea di gioco che oramai ha stufato e una che sta ancora per arrivare. C. stava così a guardare nel vuoto, quando fuori dal vetro, al primo piano, era improvvisamente comparso il chiosco di giornali, leggermente ondeggiante.
“Mammaaaa!” aveva urlato C. “Vieni a vedere, c’è un’edicola che volaaa!”
Ma dalla cucina nessuna risposta, solo il rumore di un frullatore a pieni giri.
C. si era allora ancorata se possibile di più al divano, muta con la bocca aperta ad osservare il chiosco volante, che ora oscillava impercettibilmente, ma sempre a troppi metri d’altezza rispetto al solito. Cosa diavolo stava succedendo?
Finito di frullare, anche mamma era giunta ad osservare lo strano fenomeno. Non c’era d’avere paura. L’edicolante, per ragioni commerciali, aveva deciso di spostare il proprio chiosco cinquanta metri più in là, giusto davanti all’entrata dell’edificio dell’A.S.L., abbandonando, non senza un briciolo di dispiacere, la precedente posizione più defilata, vicino ad una pizzeria, sotto un albero maestoso e bello, ma in una zona di poco passaggio.

Gli anni per C. erano trascorsi senza altri sorprendenti spostamenti aerei, ma nascosta nella mente di C., era probabilmente rimasta un’emozione particolare nei confronti dei chioschi dei giornali. Li guardava sempre con una speciale attenzione (abitando in una grande città ne poteva scorgere diversi) non lasciandosi sfuggire modifiche o ristrutturazioni più o meno riuscite, e pure inevitabili chiusure o cambiamenti di gestione. Per un certo periodo dell’adolescenza addirittura, C. aveva manifestato una certa predilezione per gli edicolanti intesi come amanti, ma epurati quelli più anzianotti (la maggioranza) non ne erano rimasti poi tanti di papabili, e questa inedita perversione era scomparsa dal cervello di C. in pochi mesi, in definitiva per mancanza di pretendenti, e raggiunta la maggiore età, C. aveva capito che non avrebbe mai voluto fare la fine di quelle mogli infreddolite di giornalai che, magari con i guanti tagliati all’altezza delle nocche, davano una mano ai mariti almeno nelle pause pranzo.

Di quell’edicola in volo solo una cosa le era rimasta in fondo: la quasi morbosa, quotidiana folle necessità di comperare giornali, forse come surrogato del non aver trovato un giornalaio affascinante come Brad Pitt. E la strana sensazione, cambiando quasi ogni volta chiosco per l’acquisto, di tradire la fiducia di ogni edicolante, e di provocare, proprio lei che tanto li amava, quel fastidioso malumore che sente ogni edicolante, quando scorge passare, anche da lontano, un cliente che credeva abituale, con sottobraccio il giornale comperato da un’altra parte.