lunedì 28 giugno 2010

Mondiali: Francia-Sudafrica (Le Tuileries non sono una cosa normale)

(Savio per Quasi Rete Gazzetta dello Sport)
Domenica scorsa, verso mezzogiorno circa, sono entrato per la seconda volta in vita mia dentro le Jardin des Tuileries. Dei ragazzi giocavano a calcio alzando appena delle nuvole di sabbia sottile (la polvere bianca dei giardini di Tuileries) e li ho fotografati in prospettiva, con le sedie verdi e gli zaini usati come porte, e gli alberi sui lati come righe di fine campo. Indossavano le maglie di Francia, Psg, Barcellona e Marsiglia (il marsigliese un bambino piccolo, che attendeva in perenne fuorigioco l’occasione giusta per entrare anche con un solo tocco nel gioco dei grandi).
Come spesso mi capita quando passo per caso vicino a qualcuno che sta giocando a calcio in un parco, il pallone è rotolato quasi nella mia direzione. Così, ho accennato una corsa e ho colpito al volo, d’interno dando un po’ d'effetto. Il tiro mi è uscito particolarmente bene, teso a girare, e il portiere della squadra mi ha ringraziato, proponendomi di unirmi alla partita. "Tu veux jouer?"
Grazie, ma purtroppo decollo tra poche ore.
La prima volta a le Tuileries avevo 17 anni, e la mia sensibilità non era ancora totalmente formata. Di conseguenza avevo camminato per questi giardini rapidamente, sostanzialmente come un normale cretino, incapace di spaventarmi senza paura di fronte alla bellezza. Ma le Tuileries non sono affatto una cosa normale. La sabbia sottile si appoggia sulle scarpe bianche con due righe rosse e blu che indosso nella speranza che Raymond Domenech mi convochi in Sudafrica, fuori tempo massimo, sorvolando sulla mia nazionalità. Se ha portato ai mondiali Gignac al posto di Benzema, mai dire mai.
Gignac, cognac. Avendomi visto mentre fotografavo, un venditore di piccole Torri Eiffel mi perseguita per quindici metri. In inglese, in francese, in italiano. Nella mia lingua madre utilizza uno stratagemma curioso per provare a rifilarmi la Torre. Italiano? Non rispondo. Italiano? Non te lo dico. Spaghetti, Berlusconi, Materazzi? Non rispondo, e proseguo con una breve accelerazione, pensando che gli spaghetti sono rimasti, Berlusconi e Materazzi invece rappresentano nuove entrate nella classificazione dozzinale dell’italiano all'estero.
Ma da buon cronista, veniamo alla partita. Francia Sudafrica 1-2. L'arbitro Oscar Ruiz rovina un match che si prometteva equilibrato al venticinquesimo del primo tempo, espellendo Gourcuff quando avrebbe dovuto solamente ammonirlo. Il principino di Bordeaux esce dal campo come un signore, senza protestare quando avrebbe potuto, e dopo essersi accertato delle condizioni dell’avversario colpito. Ma in questa esemplare correttezza, scorgo anche la mancanza di quella cattiveria necessaria per diventare un fuoriclasse. Gourcuff esce dal campo ed è uno Zidane dimezzato, senza l’istinto folle e meraviglioso di chi ogni tanto colpisce con una testata chi probabilmente se lo merita. Vorrei entrare nella Tv per gridargli nell'orecchio: “Almeno protesta un po’ Yoann! Non dovevi essere espulso! E’ ingiusto! Assurdo!” Con l’uomo in più i Bafana Bafana fanno due gol e sognano la qualificazione. Io conto gli ottimi giocatori che Domenech ha lasciato a casa e metto su una squadra niente male, che avrebbe potuto essere davvero tra le favorite per la vittoria finale. Ma Raymond deve vivere in un suo mondo parallelo, è una specie di Mourinho perdente, o come ha dichiarato Zinedine Zidane: “Semplicemente, non è un allenatore”.
La figuraccia dei Blues che rifiutano di allenarsi dopo l’esclusione di Anelka, ha scosso il popolo francese, e trovo che in questa capacità d’indignarsi e ripartire, sia sottolineata una delle differenze principali tra italiani e cugini d’oltralpe. Poi penso all’importanza delle frasi negli ultimi due mondiali francesi. Non è vero che la letteratura non conta più nulla.

“Preferisco quella della puttana di tua sorella!” (Materazzi a Zidane, 9 luglio 2006)
“Va te faire enculer, sale fils de pute!” (Anelka a Domenech, 18 giugno 2010)
Quattro anni dopo, un’altra frase ha fatto saltare i nervi alla Francia, e messo la parola fine ai Blues targati Raymond Domenech: un Europeo e un Mondiale disastrosi. Ma anche una Finale a Berlino persa solamente ai calci di rigore, per una traversa di differenza.
Qualche ora dopo, mentre l’aereo si alza sopra la città, la Torre Eiffel è più piccola di quelle del venditore di Torri dei giardini di Tuileries.

domenica 27 giugno 2010

Mondiali: Italia, un fallimento che nasce dalla depilazione

(Savio per Quasi Rete Gazzetta dello Sport)

“L’immenso e denso enigma del pelo, del pelame, della peluria e della pelle tra Adamo e Prometeo-Epimeteo, collegato sovente al sesso femminile e ai capelli della donna”. (Jacques Derrida). Citazione tratta da “Senza vergogna” di M. Belpoliti, Guanda 2010.

Diciamolo senza vergogna, nel 2006 ci andò tutto bene. Riuscire a vincere un campionato del mondo indossando delle pessime magliette bicolori e con il temibile inno dei Pooh “Noi con voi, voi con noi” in costante sottofondo, non è una cosa che capita tutti i giorni. Questa volta invece ci è andata male.

Sorvolando sui motivi tecnico-tattici che hanno portato la Nazionale di Marcello Lippi alla sconfitta, ritengo che un’altra ragione estetico-psicologica abbia condotto gli Azzurri al fallimento: la depilazione esercitata sul proprio petto da parte della maggioranza dei calciatori del Team Italia. Una pratica questa dell’asportazione del pelame intorno ai capezzoli, tra i pochi valori condivisi della gioventù italiana di questi anni.

Qualcuno potrà obiettare: anche nel 2006 Dolce & Gabbana avevano lanciato una campagna pubblicitaria con Pirlo, Cannavaro, Zambrotta, Blasi e Gattuso (ebbene sì, il grintoso Ringhio) in mutande e senza peli. Ci sono diversi scatti che li ritraggono in differenti pose, oliati a dovere, dentro uno spogliatoio d’altri tempi. Ma in quell’estate rovente l’invenzione di Calciopoli aveva spazzato via tutto, la squadra più forte di quel periodo era stata annientata dall’organizzazione Moratti-Guido Rossi-Tronchetti Provera-Palazzi, e dei campioni in mutande si erano dimenticati tutti. Tra grida giustizialiste che volevano far dimettere Lippi, urla preistoriche che ipocritamente spingevano per lo schieramento dell’Under 21, ridicole convocazioni in tribunale di Buffon e Cannavaro durante la preparazione, si era giunti in un clima isterico al Mondiale di Germania che poi aveva visto trionfare nella finale di Berlino l’Italia (rappresentata per 6 unità da calciatori della Juventus) contro la Francia (che schierava invece solamente 3 giocatori della Juventus + Zidane).

Non contenti di questo colpo di fortuna, D&G hanno voluto ugualmente ripetere le fotografie negli spogliatoi anche per Sudafrica 2010. E’ andata a finire come abbiamo visto.
Il fallimento della Nazionale ha le radici nascoste nei peli strappati dal petto ai nostri ragazzi. Non la confusione di Marcello Lippi, non la crisi del calcio italiano. Farsi vedere dagli avversari già in mutande non è certo il modo migliore per intimorirli.

giovedì 24 giugno 2010

Il mio editore

Ogni scrittore ha il suo editore, anche se ci sono scrittori senza editori, ed editori senza gli scrittori che vorrebbero. In volo verso Parigi ho letto questo delicato libro di Jean Echenoz, scrittore, dedicato al suo editore, Jérome Lindon. 52 pagine che iniziano in un giorno di neve, in rue de Fleurus, il 9 gennaio 1979.
Il tempo perfetto per leggere questo piccolo libro corrisponde circa alla durata del volo Milano-Parigi, compresi quegli attimi di pausa dedicati al decollo e all’atterraggio, a qualche veduta dal finestrino, al sorseggio di succo d’arancia o acqua offerti da Air France, a seconda delle preferenze. Ma non è obbligatorio essere in cielo per leggere “Il mio editore”.

lunedì 21 giugno 2010

Mondiali: Slovenia-Usa (Howard e Handanovic in place dela Sorbonne)

(Savio per Quasi Rete Gazzetta dello Sport)
da Parigi.

Cosa ci fanno due fidanzati che studiano Voltaire, un’antropologa costretta a vendere libri in un megastore dal venerdì alla domenica e un “anche scrittore” che però al momento lavora in un negozio di dischi, seduti al tavolino di un bar in place de la Sorbonne, un ventoso pomeriggio di giugno?
Non si sa.
Eppure, tra una parola e l’altra, il loro sguardo non può non fermarsi su Tim Howard, portiere degli Stati Uniti, che all’interno di uno schermo resta immobile mentre il pallone calciato dal centrocampista sloveno Birsa passa alla sua sinistra, con una curiosa traiettoria. I replay non hanno pietà, e Howard sembra poco avanti la linea di porta per caso, forse per cogliere più da vicino le vette delle montagne verdi disegnate sulle magliette bianche della Slovenia. Gli ricordano le altimetrie di certe tappe di montagna al Tour de France, ma l’estremo difensore della nazionale U.S.A. non fa in tempo a pensarci che il tiro lo sorprende.

Essere un gruppo significa anche vendicare le incertezze di un compagno di squadra, e quando all’inizio del secondo tempo Donovan si trova sui piedi la palla per riaprire la partita decide di fare quello che all’oratorio da piccoli talvolta era vietato: da due metri tira una sassata mirando alla faccia del numero 1 sloveno Samir Handanovic, il quale per evitare di essere sfigurato prova a ripararsi, più che a parare. Slovenia 2-Stati Uniti 1.

E qui, i tre italiani e la tedesca seduti al tavolino in place de la Sorbonne si alzano e se ne vanno, ma il loro gesto non va interpretato come una protesta in stile parlamentare contro la violazione di una legge oratoriale non scritta, ma sacrosanta. Hanno impegni diversi e si salutano. Solo in serata sapranno del pari statunitense per piede di Bradley figlio. Uno di loro tuttavia, pochi passi dopo l’arrivederci, avrà la sensazione che qualcos’altro sia successo, notando un bestione avvolto in un mantello bandiera a stelle e strisce saltellare paonazzo sul marciapiede di fronte, appena fuori da un pub in Rue Racine.

mercoledì 16 giugno 2010

Mondiali: Portogallo-Costa d'Avorio (Lo strano caso dei Quaresma)

(Savio per Quasi Rete Gazzetta dello Sport)
Camminando verso la Sé, arriva un momento in cui, come del resto di fronte alla maggioranza degli edifici, bisogna decidere se entrarci dentro, oppure sfiorarlo solamente proseguendo a destra, o a sinistra. Mentre si avanza, in salita come spesso capita a Lisbona, ci si prepara alla scelta. Se costeggio la cattedrale a sinistra, scendo verso il quartiere dell’Alfama. Già vedo le bandierine rosse e verdi che attraversano i vicoli come panni stesi al sole, lungo fili che uniscono le pareti delle vecchie case. Se supero la cattedrale dall’altra parte, ancora salita, ma lungo una via bella, forse la mia preferita. Allora continuo l’ascesa, sul marciapiede parallelo al percorso del tram numero 28.
Terza volta che sono a Lisbona, e ogni volta la sensazione di essere a casa. Roma, Barcellona, Napoli sono già pronte ad accusarmi: opportunista! In passato avevi detto le stesse cose anche a noi, sei come Zelig di Woody Allen!
Potrebbero anche avere ragione, ma come Lisbona niente. Qui mi bastano un paio d’ore per diventare portoghese, per convincermi di aver visto Fernando Pessoa dietro una finestra, seduto alla scrivania dell’azienda commerciale dove lavora come traduttore di corrispondenze commerciali. Salgo, e l’unica taverna aperta è quella di Joaquim, che è sempre abbastanza brillo. Oggi forse ancora di più: il Portogallo affronta la Costa d’Avorio, e Joaquim ha già il televisore acceso, sopra una mensola ornata con antiche bottiglie di Porto. Nonostante il caldo, insiste per offrirmi un bicchierino di Ginjinha, un bicchiere che non è di vetro ma di cioccolato, perché questo liquore alla ciliegia si assapora meglio così, mangiando poi pure il bicchiere. “Cominciamo con questo…” mi fa, lasciando intendere che davvero, è solo l’inizio.
Seguono sapori diversi, colori di Porto che dipingono la bocca in modo differente. Joaquin è teso, ma niente rispetto a quella finale europea maledetta del 2004, quando tutto il Portogallo sperava di coronare un sogno che sarebbe stato meritato, e invece la Grecia, mi dice, la Grecia, ripete ancora incredulo, si trasformò nell’Uruguay del 1950 e loro nel Brasile sconfitto al Maracanà. Paragonata a quella delusione ogni altra è relativa, quindi aspettiamo la Costa d’Avorio, vediamo se Drogba gioca davvero con il braccio rotto come Beckenbauer. Vediamo se finisce anche oggi 4 a 3 come Italia-Germania del 1970. Se dal nulla dopo Eusebio salta fuori un centravanti portoghese capace di far tremare le difese avversarie. Perché in Lusitania crescono giocatori tecnici, fuoriclasse come Luis Figo e Cristiano Ronaldo, ma di numeri 9 dopo gli anni sessanta neanche l’ombra.
Joaquim è definitivamente ubriaco. Mima assoli con una chitarra elettrica immaginaria mentre mi fa ascoltare la sua musica preferita: Lou Reed, Pink Floyd, e Zucchero. Chissà perché, Zucchero. Da lisboneta non ama l’arroganza di Mourinho, ma pensa che abbia qualcosa in più, per essere precisi, che venga da un altro posto. Non capisce perché Cristiano Ronaldo prenda quel tipo di rincorsa così coreografica prima di calciare le punizioni. Appena prima degli inni nazionali gli chiedo se sia solo una coincidenza che Abilio Quaresma, l’ispettore inventato da Fernando Pessoa per le sue storie poliziesche, porti che lo stesso cognome del calciatore Ricardo, passato giusto l’altro giorno dall’Inter al Besiktas.

lunedì 14 giugno 2010

Niente metafore per spiegare il lutto

Oggi sul Quotidiano della Calabria è uscita una bella recensione di "Mio padre era bellissimo" scritta da Isabella Marchiolo.
NIENTE METAFORE PER SPIEGARE IL LUTTO
E' forse la cosa più difficile da spiegare a un figlio piccolo. Perché con la morte non esistono metafore di fiori e cicogne, non si può travestire la crudezza con la fiaba né trovare sinonimi esplicativi, applicare i diminutivi o vezzeggiativi che piacciono tanto ai bimbi. Ad aggravare la situazione - la lampante oggettività dei fatti - c'è che la morte giunge come un evento imprevedibile, lasciandoci doppiamente impreparati all'esame, ad ogni età. Soprattutto se riguarda un genitore: sappiamo che, almeno nell'ordine comune del tempo, sopravviveremo alla perdita di madre e padre, eppure la scomparsa rimane sempre uno choc, un'orfanità coatta e traumatica.
In “Mio padre era bellissimo”, romanzo d'esordio del bresciano Francesco Savio, un bambino di nove anni perde il papà. E proprio perché i giri di parole, gli schermi difensivi degli adulti, sarebbero banali e inutili, a raccontare questa storia è la voce, pura e disincantata, del figlio. Nove anni: ferrea logica, mista a paure e incertezze.
Il libro è il diario di quella che, con i paroloni del caso, si definirebbe “elaborazione del lutto”. Ma nel dolore essenziale e interrogativo (può essere “interrogativo” un dolore? Sì) di un bambino, di psicanalitico non c'è nulla. E' un dolore tutto intero, con la pelle fresca. Un dolore appuntito dall'infantile cinismo, che, ancora, riesce a pensare - appunto, nel modo dei bambini - al futuro. Pure senza padre, si potrà crescere. I ricordi, l'abbandono, inizieranno a far male più tardi, inclinati in una sofferenza diversa da questa dell'oggi, che è immediata e difficile da spiegare come tutte le cose degli adulti. La giovane voce narrante del romanzo ci parla di situazioni pragmatiche, evidenti. Il mestiere del papà Guerrino, che fa il materassaio e quando si ammala non ha più le forze per trasportare la pesante merce su per i palazzi dei clienti; ed è costretto ad affidare l'incombenza alla moglie Leonilde, donna di spalle larghe e grande cuore. Il figlio Nicola pensa una cosa materiale e spiazzante: se papà muore, lui dovrà fare materassi al posto suo e non potrà diventare, come invece sogna, un calciatore-mito, erede del venerato Platini. Però a nove anni Nicola non vuole fare materassi. Lui gioca a pallone e corre fulminee discese in bicicletta. La sua onestà di pensiero è spietata. Il figlio ha persino già la ferita di una colpa, immaginata o autoinflitta. Perché, dopo una lite, augura la morte a quel padre debilitato, costretto in casa dalla malattia. Capita quasi a tutti. Alziamo la voce con qualcuno che amiamo e poi a quello capita qualcosa di brutto. Allora pensiamo che siamo stati noi. Certe volte quello che capita è così brutto che non abbiamo neanche la possibilità di rimediare chiedendo scusa.
“Mio padre era bellissimo” è il racconto di un idillio interrotto. Un amato papà che non potrà più essere eroe, che non è invincibile, non è perfetto. Eppure, tra i sogni e la rabbia ribelle dei nove anni, il figlio capisce che, da adesso in poi, quell'assenza sarà un vuoto aperto lì, nell'infanzia, e mai rimarginabile. Lo capisce perché da adesso lui, “il ragazzino a cui è morto il padre”, viene affetto da un inspiegabile mutismo, e il calcio, forse, diventa un po' meno importante. La soluzione è un'utopia che ha bisogno di un piccolo aiuto pratico: prendere un treno e andare a cercarselo da solo, con segreti viaggi da detective, quel padre che in realtà è vivo, ma si è nascosto in qualche città lontana.
Nel romanzo di Savio, il dialogo muto del bambino con il padre consumato dalla malattia e poi sottratto dalla morte, ha un binario parallelo in certe oniriche riflessioni del genitore. Il cambio di linguaggio, di percezione, è palpabile. Bambini e adulti, due mondi opposti, di precise e rivendicate demarcazioni.
Una cosa accomuna i due personaggi: entrambi sono sinceri fino all'estremo limite della coscienza. Scopriamo che il padre si vergogna di aspettare sul furgone la moglie che s'inerpica su quattro piani di scale piegata in due sotto un materasso. Scopriamo le confidenze di vecchi amori, l'impossibile e accorata trasmissione dei desideri da un genitore morente a un figlio fiducioso e impaziente, come tutti i bambini.
Alla fine il figlio non avrà scelta e diventerà un uomo. Intuiremo se avrà infine realizzato i suoi sogni, sentiremo con lui la dolce malinconia della memoria di suo padre.

domenica 13 giugno 2010

Mondiali: Argentina-Nigeria (Il vestito nuovo di Maradona)

(Savio per Quasi Rete Gazzetta dello Sport)

Mentre terminavo il consueto turno lavorativo sottoterra (ogni giorno sei ore, come una preghiera di una dubbia religione) ascoltavo Ferrara contattato telefonicamente da Radio Uno. La conduttrice del programma, nota regina di quella Tv pubblica che oscilla tra calcio, Isole e canzoni, chiedeva a Ciro un parere su Diego Armando Maradona, identificato da buona parte della stampa come principale punto debole di una Nazionale proprietaria al contrario di tutte le carte in regola per alzare la Coppa del mondo.
“Di una cosa puoi stare certa Simona, non sentirai mai parlare male un ex compagno di squadra di Diego”.

Le figlie alla fine l’hanno convinto, e Maradona si è presentato all’esordio come commissario tecnico in un Mondiale vestito come uno sposo. Appena dopo gli inni, la telecamera ha inquadrato Diego seduto in panchina che ha fatto un sorriso netto, leggero e quasi beffardo. Era lo stesso sorriso, ma invecchiato come un vino eccellente, del 1994, quando al termine di un’altra Argentina-Nigeria (giocata da marziano), era stato premurosamente preso in consegna (ancora prima di uscire dal campo) da una curiosa infermiera bionda, già pronta per il prelievo.

L’abito della festa è durato poco. Iniziata la partita Maradona ha cominciato a comportarsi come il suo carattere pretendeva, agitandosi oltre la riga bianca per una buona occasione della Nigeria, per la rete di Heinze, e per le troppe occasioni sprecate dai suoi giocatori, Messi in particolare. Il matrimonio è finito 1 a 0. Gli argentini in campo e sugli spalti si sono messi a gridare: Vamos! Diego ha sollevato in un abbraccio Leo, e non si è capito più quale dei due fosse l’altro.

sabato 12 giugno 2010

Mondiali: Uruguay-Francia (Perso nella bellezza celeste)

Un esperimento interessante: inviati senza esserlo. Su Quasi Rete le partite dei Mondiali raccontate da luoghi diversi che non sono però mai il Sudafrica. Ogni giorno, o quasi, su
Perso nella bellezza celeste
Se i francesi sono gli italiani di cattivo umore, come sosteneva Jean Cocteau, gli uruguagi, che hanno qualcosa da spartire con gli italiani quantomeno per aver regalato a Giuseppe Garibaldi il grande amore di Ana Maria de Jesus Ribeiro, come si pongono rispetto ai francesi?Con questa domanda in testa mi sono seduto sul divano, pronto per la seconda partita del mondiale.
Perso nella bellezza delle maglie celesti, ho resistito per novanta minuti ad un match noioso, messo in scena dagli undici Blues scesi in campo (i migliori, Raymond Domenech tende a lasciarli in panchina o a casa, seguendo rigidi quanto inesplicabili leggi di selezione) e dai parenti lontani di Ghiggia e Schiaffino.
La Francia non ha mai battuto l’Uruguay ai mondiali, e nonostante la cifra tecnica superiore di Ribery e compagni, ho avuto quasi subito la sensazione che non sarebbe stato l’incontro di Città del Capo a cambiare questa statistica. I transalpini danno l’impressione di autogestirsi, come già a Germania 2006, e Mister Domenech come allora rinuncia ad un po’ di orgoglio per far quadrare il gruppo. L’elegante Gourcouff è un principe di evidenti qualità, schiacciato dall’eredità di un re stupendo che fatica a farsi dimenticare. Forse sarà solo questione di tempo, molto più probabilmente no.
Anche Washington Tabarez ha le sue fissazioni, insiste su un Suarez non all’altezza come sempre di un palcoscenico che non sia l’Amsterdam Arena, lasciando dormicchiare in panchina l’Edinson Cavani. Si va verso lo zero a zero. Il neoentrato Lodeiro cerca di rinverdire la fama di picchiatori celesti cercando di portarsi a Montevideo un pezzo della tibia di Bacary Sagna, ma il souvenir resta al terzino francese e il centrocampista uruguaiano viene espulso.
Un colpo di testa di Henry sfiora il palo. David Trezeguet, sprofondato in una poltrona in Argentina, in Francia o chissà dove, pensa: io, quella palla l’avrei girata dentro.

venerdì 11 giugno 2010

Venus (Tennis-Williams) non è Micol (Finzi-Contini)

(Savio per Quasi Rete Gazzetta dello Sport)
Ho sempre desiderato innamorarmi di una tennista. Accompagnarla al campo con la racchetta a tracolla, il manico in diagonale che esce sopra la spalla. Appoggiarci alla rete metallica fatta di rombi verdi sorseggiando una coca cola con la cannuccia. Una ragazza tipo Micol dei Finzi-Contini, esile vestita di bianco, io in Lacoste probabilmente azzurra. E invece...
Ci sono siti che lasciano il tempo che trovano. Quelli dove vai a controllare la posta elettronica e ti cade invece l’occhio sul nuovo look di Venus Williams al Roland Garros. Il gonnellino sventola, e sotto Venus niente. Personalmente però non amo Venus. (Se mi fai vedere tutto, che mi resta da immaginare?)
Certo, meglio di Serena, ma rispetto a Micol del Giardino dei Finzi Contini non c’è paragone. La verità è che ormai da tempo non ci sono più le tenniste di una volta. Troppo muscolose, mezzi uomini o in taluni casi uomini a tempo pieno. A voler scrivere un romanzo tennistico oggi ci sarebbe da puntare su una storia d’amore tra Federer e Nadal, con Djokovic come terzo incomodo pronto a fare l’imitazione di un loro bacio.
Tutti che osservano le mutandine quasi assenti di Venus. Talvolta in giro per Milano vedo ragazze tenniste così graziose che per poco non finisco fuori strada in bicicletta, ricordando il mio sogno di ragazzo. Ma tecnicamente non devono essere un granché, altrimenti sarebbero al Roland Garros. Magari al posto della splendida Schiavone, protagonista di un torneo da leggenda, ma di viso troppo simile a Mauro German Camoranesi per incontrare il mio gusto estetico.
In definitiva non saprei quale tennista del circuito Atp scegliere per sostenerla da casa adesso che ho Sky, e dopo una decina d’anni ogni tanto posso di nuovo guardare il tennis che conta. Spero di perdere la testa per qualcuna a Wimbledon. Ma sarà difficile. Il fascino di Micol non ha niente a che vedere con l’esibizionismo muscolare di oggi.

La Coppa del mondo e i suoi oggetti di culto

Ieri alla Libreria dello Sport di Milano mi è capitato di presentare un libro sui Mondiali. Un libro che sospende il tempo, mica roba da poco. Un modo per immergersi in un non-luogo fatto di tante nazioni, quelle che hanno ospitato le diciotto edizioni dei campionati del mondo, dall’Uruguay del 1930 alla Germania del 2006. Un modo per viaggiare nella storia di uno sport meraviglioso, indossando le scarpe rovinate di Josè Nasazzi, capitano della prima Celeste campione del mondo, e la maglietta arancione con il numero 14 di Johann Cruijff. Oggi che iniziano i Mondiali, mi va di consigliare a tutti questo libro, di Gino Cervi e Antonio Gurrado.


domenica 6 giugno 2010

Savio convoca Cassano e Balotelli

Siamo un popolo di santi, poeti, navigatori, pizzaioli, spaghettari, virtuosi suonatori di mandolino e commissari tecnici della Nazionale. Per questo, interrompendo per soli cinque minuti lo studio del mandolino, e non volendo in alcun modo irritare l’allenatore che mi ha regalato più gioie da quando sono nato, è giunta l’ora di diramare la mia (peraltro attesissima) lista dei convocati per Sudafrica 2010.

Portieri: Buffon, Marchetti, Sirigu

Difensori: Chiellini, Cannavaro, Bonucci, Bocchetti, Maggio, Criscito, Zambrotta

Centrocampisti: Pirlo, Gattuso, Marchisio, De Rossi, Montolivo, Aquilani, Palombo, Pepe

Attaccanti: Pazzini, Gilardino, Cassano, Balotelli, Iaquinta


Formazione (4-3-1-2)

Buffon, Maggio, Criscito, Chiellini, Bonucci, Gattuso, De Rossi, Marchisio, Pirlo, Cassano, Pazzini

giovedì 3 giugno 2010

Il cerchio perfetto di Basso e le traiettorie dipinte di Arroyo

(Savio per Quasi Rete Gazzetta dello Sport)
Ci sono cerchi che non si chiudono per un soffio, altri che lo fanno, alcuni che stupiscono per la perfezione del loro girare.
Quando il 28 maggio del 2010 Ivan Basso ha indossato la maglia rosa, erano trascorsi quattro anni esatti dall’ultima volta che l’aveva fatto. Dio non avrebbe potuto essere più preciso nel lanciare i suoi dadi.
Durante il Giro del 2006 mi ero entusiasmato per le imprese di Ivan. Così diverso dal trascinante Marco Pantani, dai suoi scatti ondeggianti e affilati che facevano inumidire gli occhi degli amanti del ciclismo, Basso affrontava anche le salite più impervie restando seduto, una pedalata dopo l’altra, fedele al suo passo.
“Sono Ivan Basso, e salgo sempre col mio passo”.
Altri ciclisti avevano imitato questa sua dichiarazione, risultando però meno credibili. Nessuno infatti poteva vantare la rima baciata tra Basso e passo. Doveva esserci una ragione. Poi la squalifica, durante mesi per chi scrive particolarmente sfortunati, mesi in cui vittorie sul campo venivano cancellate da tribunali improvvisati. Per giorni era corso da un telefonino all’altro il messaggino che vedeva assegnare la vittoria del Giro 2006 da parte di Guido Rossi all’Inter di Moratti.
Due anni di squalifica, la confusione degli appassionati che, come per Pantani, non capivano se il loro eroe li aveva traditi o se invece, come per Pantani, essere troppo forti poteva dare fastidio a qualcuno.
Venerdì 28 maggio mi sono messo davanti alla Tv, sperando che Basso riuscisse a vestirsi nuovamente di rosa. L’ho ammirato attaccare il Mortirolo aiutato dal giovane compagno Vincenzo Nibali, così leale da saper rinunciare a qualcosa nel presente, immaginandosi campione in un futuro sempre più vicino. Insieme a loro Scarponi. Sembrava fatta.
Dopo la cima però, mentre Basso, Nibali, Scarponi e il primo inseguitore Vinokourov scendevano con lenta paura, la maglia rosa David Arroyo si è messa a disegnare traiettorie splendide sull’asfalto bagnato, talmente coraggiose da meritare di restare dipinte lungo i tornanti. Mi sono sorpreso a desiderare che Arroyo non perdesse la maglia. La sua disperata difesa solitaria era da applausi. E poi si era fatto colorare pure la bicicletta di rosa...
Ma le grandi corse a tappe non si vincono senza una squadra forte, e Basso nel tratto finale verso l’Aprica ha imposto il suo ritmo superiore, cambiandosi in continuazione con Nibali e Scarponi (cedendo in cambio a quest’ultimo il successo di tappa) alla guida di un terzetto veloce e matematico.
Arroyo ha tagliato il traguardo tre minuti dopo, con i suoi denti storti e il completo rosa sporco di fatica. È tornato indietro, costeggiando le transenne in evidente contromano, mentre altri corridori continuavano ad arrivare. Come se questa inversione gli permettesse di non perdere quel colore che aveva difeso con tutta la classe in suo possesso. La gente del ciclismo lo applaudiva, facendo brillare la civiltà di una passione sportiva diametralmente opposta a quella che, in Italia, rovina troppi tifosi del calcio o della vittoria.
Ivan Basso ha risposto alle domande dei giornalisti con la solita calma. Ha pensato a quanti giri avevano fatto in quattro anni le ruote della sua bicicletta. Si è meravigliato nell’accorgersi che avessero deciso di fermarsi per ritornare a quattro anni prima con tanta esagerata precisione.