martedì 30 novembre 2010

Liga: Barcelona-Real Madrid (Il coraggio di Flannery, la Manita e la sacra bellezza di vivere)


Da Milano, l’amico F. mi scrive: “Quale aspetto positivo può esserci nell’alzarsi alle otto e trenta del mattino di domenica per andare a lavorare in un negozio dove trascorrerò la giornata in balia di orde di italiani votati allo shopping pre-natalizio?”.
Caro F., rispondo comprensivo, l’unico aspetto positivo che mi viene in mente è quello di non essere morto durante il sonno.

Ma appena dopo aver pensato alla sacra bellezza del poter vivere, il mio pensiero si sposta verso vantaggi ulteriori. Una volta superata la domenica lavorativa, l’amico F. potrà anche decidere cosa guardare alla televisione lunedì sera: Vieni via con me della coppia Fazio-Saviano o il Clasico di Spagna, Barcelona-Real Madrid? Conosco bene F., e fino all’ultimo resterà indeciso.

Intanto la domenica regalata al Dio-Lavoro se la farà passare nel migliore dei modi grazie al consueto stratagemma: acquistare un libro dopo averlo scelto con attenzione, ovvero il contrario di quello che fa la maggioranza dei clienti del negozio dove lavora i quali, simili a pecore bianche rosse e verdi, tendono a scegliere il rettangolo con pagine situato ai primi posti della classifica (pensiero che rassicura la pecora italica per fortuna non clonata: “Ah, quel libro è primo, meglio andare sul sicuro, se piace alla maggioranza delle persone un motivo ci sarà…”) o quello consigliato da qualche giornalista/scrittore (talvolta prostituito intellettualmente) in una recensione sui quotidiani nazionali.
F. quasi sempre compra libri non consigliati, fidandosi dei suggerimenti che, immancabilmente, sfuggono a certi scrittori che legge. Non si ricorda però chi, qualche anno fa, gli presentò Flannery O’Connor. Pazienza, la fortuna di aver conosciuto Flannery fa passare in secondo piano chi gliela presentò.

Della scrittrice americana, F. ricorda le fotografie scovate in rete. F. controlla sempre la faccia degli scrittori che ama, forse per capire dalle rughe o dal taglio degli occhi come fanno ad essere così bravi. Il suo è un tentativo di scoprire, leggendo i tratti del naso o il taglio della bocca degli scrittori stimati, una fisiognomica del genio o quantomeno del talento, senza dimenticare che, come ha imparato ascoltando Franco Battiato, in fondo siamo miseri ruscelli senza Fonte. Della O’Connor il mio amico F. ricorda soprattutto tre foto: una seduta in poltrona con un libro tra le mani, una con cappello dietro una staccionata, una con collana che sembra una fototessera da carta d’idendità. C’è un sentimento comune però che traspare dalle tre immagini: è quello dell’umiltà.

A F. le fotografie di Flannery arrivano da chissà dove nella testa mentre si trova in una cassa che è un parallelepipedo di vetro aperto sopra per far respirare, dentro il quale ci sta un cassiere, lui nella fattispecie. Ma ovunque si giri, fotografie di altri scrittori lo guardano. Sono tutte molto serie, con le mani appoggiate ad una parte del viso come se stessero pensando a qualche cosa di assoluto, fondamentale e determinante. Mani che sorreggono menti, fronti, sopracciglia. Per intenderci nessuno che si metta le dita nel naso. Truman Capote si sistema gli occhiali ad esempio, ma è chiaro che sta riflettendo su qualcosa di molto importante. Ernest Hemingway invece è grande come una porta, e tiene in braccio un gatto. Il cassiere F. comincia male con lui quando, girandosi verso sinistra e avendo l’impressione che il gatto voglia fuggire da quell’abbraccio un po’ forzato, lo provoca:
“E lascialo scendere Ernest, povera bestiaccia. Sai che ti dico? Francis Scott Fitzgerald mi piace molto più di te. Non so cos’è, ma Il grande Gatsby, ecco, è quello. E lascia giù quel gatto.”

F. vorrebbe una fotografia di Flannery O’Connor da guardare ogni tanto mentre restituisce soldi o carte fedeltà a clienti che comprano Cotto e mangiato. La cerca disperato con gli occhi, ma non la trova sulle pareti. Flannery, dove sei?
Ricorda allora un brano tratto da Nel territorio del diavolo (minimum fax), i saggi sul mestiere di scrivere dell’autrice de La saggezza del sangue.
“Scrivere un romanzo è un’esperienza terribile, durante la quale spesso cadono i capelli e i denti si guastano. Se il romanziere non è sostenuto dalla speranza di far soldi, deve essere almeno sostenuto da una speranza di redenzione, altrimenti non sopravviverà alla prova. Chi è senza speranza non solo non scrive romanzi ma, quel che più conta, non ne legge. Non ferma a lungo lo sguardo su nulla, perché gliene manca il coraggio.”
Con tutti i soldi che mi passano tra le mani qui in cassa, pensa F., qualora avessi al riguardo dubbi che non ho, li butto nel cestino. Non i soldi, ma i dubbi: nel mio percorso di piccolo scrittore, l’unica forza che mi spinge è la speranza di redenzione.
Questo è l‘ultimo discorso registrato di F., prima di essere inghiottito nella ripetitività dei gesti, tumulato nella teca di vetro domenicale in attesa delle ore diciannove.

Poi è lunedì sera. La decisione è presa: Barcelona-Real Madrid, e nell’intervallo Vieni via con me. Si rivelerà quella giusta, fatta eccezione per l’intervallo, che andrà a coincidere purtroppo con il noioso e inutile balletto teatrale sulle note accelerate della canzone di Paolo Conte, messo in scena da attori esagerati per la quarta volta consecutiva. Basta.

La partenza della squadra di Guardiola è da brividi. Xavi, Iniesta e compagnia fanno girare palla così veloce che le Meringhe madrilene non sanno più da che parte voltarsi. 2-0 dopo diciotto minuti, 5-0 al novantesimo. La Manita. Un risultato che va stretto al Barca, composto da undici giocatori che hanno il coraggio di guardare. I centomila del Camp Nou passano il secondo tempo a cercare con la voce Josè Mourinho, apparentemente scomparso. E’ invece seduto in panchina, mentre una telecamera inquadra lo striscione della serata:
“Mourinho, ora e sempre Traduttore”.
Per l’allenatore portoghese, reduce dal triplete nerazzurro ottenuto senza sportività, davvero una brutta serata.

venerdì 26 novembre 2010

Serie A: Genoa-Juventus (Lo zucchero di Campana e il vendicatore del calcio moderno)

Il principale vantaggio delle cose e delle costruzioni rispetto alle persone, risiede nella possibilità di durare (una volta venute alla luce) oltre la vita degli umani, o di esistere già quando questi si presentano nel mondo, con l’ingenuità o la presunzione di essere i primi o fondamentali.

Ogni volta che vado a Genova, passo per piazza Caricamento e resto qualche minuto a guardare la sopraelevata, rammentando sempre un’intervista a Paolo Villaggio nella quale l’attore genovese ricordava di essersi svegliato un giorno e di essere rimasto stupefatto nella negatività della scoperta: chi aveva tirato su quell’orrore di cemento che impediva la visione del mare? Le generazioni future sarebbero state liberate da quella bruttezza?
Successivamente mi è capitato di percorrerla da automobilista la sopraelevata, e osservando il profilo al tramonto di Zena ho pensato che anche una cosa brutta può permettere in qualche modo di accedere alla bellezza. Una magra consolazione.

Poi solitamente faccio colazione al Caffè degli Specchi, rubando talvolta la bustina di zucchero con scritto sopra dei versi di Dino Campana, che qui prendeva cappuccio e brioche prima di essere costretto a fare la cosa che ogni scrittore si augura non gli capiti mai: provare a riscrivere un libro a memoria, dopo averlo sfortunatamente smarrito.
”Entro una grotta di porcellana
sorbendo caffè
guardavo dall’invetriata
la folla salire veloce”.

Dagli spalti del Luigi Ferraris dei giocatori senti quasi l’odore, e ti sembra di essere in un campetto di periferia dove puoi guardare chi gioca sulla fascia negli occhi. Milos Krasic rappresenta una sorta di vendetta contro il calcio moderno, colpevole di aver assassinato la maggioranza delle ali di una volta. Sarebbe un numero 7, ma indossa il 27. La sua visione personale del football è semplice: riceve palla, la stoppa e punta il difensore. Lo fa con tale naturalezza da portare il marcatore (il numero 3 di una volta) in una zona del cervello molto vicina all’esaurimento nervoso. Prima di alzare bandiera bianca e correre sul lettino dello psicanalista, solitamente il terzino sinistro si piglia almeno un cartellino giallo. Per questo, dopo la simulazione dell’ala serba a Bologna abbiamo assistito ad una serie di corsivi indignati, che curiosamente non si sono ripetuti dopo la testata di Samuel Eto’o a Cesar in Chievo-Inter. Quando fatichi a fermare un campione sul campo, provi a bloccarlo sui giornali.

Al primo pallone toccato da Milos, ho pensato che lo stratagemma fosse servito. Palla a Krasic che punta Criscito il quale, per non essere scavalcato, lo butta per terra con le braccia. L’arbitro lascia correre, e Del Neri è solo uno dei tifosi juventini che si mette a pensare: “Ecco, adesso cercheranno di farlo passare per simulatore sempre”.
Non sarà così.

Sotto gli ingiustificati Buu del pubblico genoano, Krasic prima è sembrato smarrirsi, poi ha ripetuto l’esercizio preferito. Stop e puntare. Dalla gradinata avevo la sensazione di leggere la sua idea nascosta sotto i biondi capelli. Ragionava in serbo, ripetendo a se stesso più o meno così: “adesso la stoppo, poi punto Criscito”.

L'avrebbero steso quattro o cinque volte, sarebbero arrivati i primi gialli. Poi Krasic avrebbe deciso per lo slalom, saltando come paletti tre difensori rossoblu prima di calciare verso il palo più lontano che l’avrebbe premiato spingendo la palla oltre la linea bianca. Genoa 0 Juventus 2.

Il secondo tempo non avrebbe cambiato il risultato e Krasic, uscendo dal terreno di gioco sostituito da Sissoko, mi avrebbe dato la stessa impressione di un appartenente alla folla che, oltre il vetro, saliva veloce.

mercoledì 24 novembre 2010

Tornando a casa

Ieri pomeriggio ho incontrato me stesso mentre tornavo a casa dall’oratorio. Avevo probabilmente nove anni, indossavo una maglietta a righe verticali bianche e nere, di cotone, che avevo comprato nell’emporio vicino al cortile sul lato sinistro della chiesa del mio quartiere. Si poteva scegliere fra tre colori diversi di righe alternati al nero, ma francamente non avevo avuto nessuno dubbio, e al proprietario dell’emporio avevo detto: “Ecco, voglio quella”.

Tornavo a casa dall’oratorio, e il fatto d’incontrarmi adesso nel 2010 a Milano all’inizio mi aveva sorpreso: possibile che fossi davvero io?
Non ho avuto il coraggio di salutarmi, e nemmeno di accarezzarmi con la mano i capelli come fanno certi grandi con i bambini.
Ho continuato a camminare sul marciapiede, calcolando con il piede destro i centimetri da far percorrere alla palla per raggiungerla dopo un passo senza farla scontrare contro altri passanti sul marciapiede, o prima che il cane del fruttivendolo scambiasse uno stop a seguire per un invito al triangolo.

Allora ieri pomeriggio mi sono voltato di scatto e ho seguito quel ragazzino che tornava a casa felice dopo aver giocato a pallone, di una felicità che (non ho avuto il coraggio di dirgli) sarebbe stata la forma di felicità più pura che avrebbe provato in vita sua.
L’ho raggiunto cercando di non spaventarlo e gli ho detto sai, probabilmente il sogno che hai nella testa ora non lo realizzerai, ma un giorno, il 24 novembre del 2010, riceverai una breve lettera da parte del Presidente della Juventus, che ti ringrazierà per un libro che gli hai spedito. Adesso è difficile da spiegare, ma ti verranno gli occhi lucidi, che non sai cosa vuol dire ma ti assicuro è una cosa bella associata alla possibilità che le lacrime non siano per forza sinonimo di sofferenza. Penserai che è da stupidi emozionarsi così a trentacinque anni, ma stai tranquillo, forse in quella capacità di emozionarsi si nasconde l’impresa di aver conservato qualcosa di quel ragazzino con la maglia a strisce, che aveva intuito se stesso futuro in un signore grande e un po’ strano che l’aveva rincorso lungo il marciapiede.

martedì 23 novembre 2010

Le elezioni. Perché votare “Mio padre era bellissimo” come Libro dell’Anno di Fahrenheit?

Francamente non ne ho la più pallida idea. Tuttavia, l’8 dicembre parteciperò a Fahrenheit. Durante la puntata, in diretta dalla Fiera Nazionale della Piccola e Media Editoria di Roma, verrà proclamato il Libro dell’Anno 2010, scelto tra tutti i libri del mese segnalati dalla trasmissione.
E’ possibile votare “Mio padre era bellissimo” (già Libro del Mese di Gennaio) scrivendo una mail a

fahre@rai.it

Per il testo fate voi, consigliabile il classico:
“Voto per Mio padre era bellissimo di Francesco Savio”.

Già, ma perché votare “Mio padre era bellissimo” come Libro dell’Anno di Fahrenheit?
L’unica cosa che mi viene in mente per invogliare i lettori di Radio 3 e non solo a votare il mio libro piuttosto che quello di un altro, risiede nella leggerezza di “Mio padre era bellissimo”. Una leggerezza non filosofica o spirituale, ma sancita dai grammi. Ci sono infatti svariate possibilità che il mio libro sia il più leggero in concorso e quindi posso dire questo:
“Se siete una di quelle persone che comprano due, tre quotidiani al giorno, avrete certamente notato una cosa. I giornali ormai arrivano intorno alle settanta pagine ciascuno tra articoli più o meno interessanti e pubblicità con le donne nude. Pertanto, se amate accompagnare la lettura del quotidiano a quella di un buon libro, quale migliore soluzione che infilarsi sottobraccio “Mio padre era bellissimo”, di sole 139 pagine? Un bilanciamento cartaceo. Una velata protesta contro il sistema dell’informazione che obbliga, ad esempio, a pagare cinquanta centesimi in più al sabato per un chilo di rivista femminile non desiderata, aggregata al quotidiano numero 1 o 2. Senza contare che nel libro di Savio a sorpresa non ci sono donne nude.

Secondo aspetto, da non sottovalutare, e derivante dall’infanzia quando mi capitò di trovare nella cassetta della posta un portachiavi con uno Scudo da un lato e il volto di un candidato dall’altro. Votate X, c’era scritto, e molti condomini accettarono il consiglio, soddisfatti per il nuovo portachiavi.
Non arriverò a tanto, però. E’ mia intenzione regalare a tutti quelli che voteranno “Mio padre era bellissimo” una matita, la stessa (lunga sottile, marroncina, perfettamente temperata) che Giorgio Gaber rubò dalla cabina nella sua adorabile canzone che parlava di elezioni. Di più non posso promettere.
Grazie.

lunedì 22 novembre 2010

Contro la Chiesa del silenzio (con Langone da prima di Langone)


Sul Foglio di sabato, il bravo Langone scrive contro la Chiesa del silenzio che “non dice niente” in merito alle aperture domenicali di Esselunga, Coop ecc.
“Il Papa non dice niente” commenta E., un amico del giornalista che lavora all’Esselunga. E con lui la Cei (questo sindacato di vescovi senza carisma, specifica Camillo).
Langone non vorrebbe che un giorno si addebitasse alla Chiesa questo silenzio, e prega affinché nelle prossime settimane un autorevole uomo di Chiesa prenda la parola e dichiari che chi decide a favore delle aperture domenicali è contro Dio e perciò contro l’uomo. Proprietari che chiedono, amministratori pubblici che autorizzano. Mentre i clienti domenicali, conclude splendidamente Langone, sono semplicemente contro sé stessi.

Già. A partire dalla metà degli anni novanta le aperture domenicali hanno rivoluzionato la vita dei lavoratori del commercio, categoria che peraltro sindacalmente non conta nulla. Qualcuno raccontava che sarebbe aumentata la ricchezza di tutti, che si sarebbero creati nuovi posti di lavoro. Qualcuno ci aveva anche creduto.
Alla Chiesa quindi non addebito un silenzio, ma una colpa. Una delle tante.
Ho visto famiglie spostarsi dalle chiese ai centri commerciali, stufi di pregare Dio per un qualcosa futuro meno affascinante di uno shopping presente. Per questo l’indignazione di Langone arriva con quindici anni di ritardo. E sono certo che nessun autorevole uomo di Chiesa prenderà la parola. Perché la Chiesa è corrotta, il Papa è corrotto, la maggioranza dei vescovi sono corrotti, di una corruzione che purtroppo non è materiale ma spirituale. Mi sento quasi banale nell’affermarlo, ma mi sentirei ancora più ingenuo nell’ipotizzare prese di posizione che non arriveranno mai. Certo l’uomo, come sempre, può scegliere, e quindi se gli italiani non fossero un gregge galoppante alla domenica verso il centro commerciale più vicino, non servirebbe nessuna Preghiera.

Per fare la mia parte comunque, verso le sei del pomeriggio di domenica ho camminato fino alla chiesa di Santa Maria delle Grazie. Sono entrato, e sono rimasto in silenzio quasi trenta minuti a guardare il soffitto.

martedì 16 novembre 2010

Serie A: Inter-Milan (Un derby deciso dal parrucchiere, ovvero Materazzi Taxi Driver)



Che si sarebbe trattato di un derby deciso dal parrucchiere lo si era capito già la sera del 31 ottobre scorso quando, al termine di Mila-Juventus 1-2, Silvio Berlusconi aveva individuato nei capelli di Massimiliano Allegri la radice della sconfitta rossonera.
L’allenatore del Milan il mattino seguente si era prontamente recato dal parrucchiere per regolare la chioma in modo che risultasse adatta a rilasciare interviste in sala stampa, e da quel momento Nesta e compagni avevano cominciato a girare per il verso giusto, seguendo una rotazione di vittorie più adeguata ad una squadra votata al conseguimento dello scudetto.

Conoscendo la predisposizione del Presidente del Consiglio ad azzeccare le mosse vincenti anticipando gli altri concorrenti, sia come proprietario di club che come politico, il resto dei contendenti aveva utilizzato il ponte dei Morti per consultarsi con i parrucchieri più autorevoli della penisola. Massimo Moratti aveva consigliato Benitez di studiare con attenzione le scelte del barbiere di Milanello ma la società di via Turati, esempio di azienda organizzata in maniera quasi esemplare, aveva immediatamente obbligato i suoi calciatori a farsi fotografare o riprendere sempre con il berretto in testa, per non permettere agli avversari più temibili di spiare.

Così Rafa aveva dovuto improvvisare, lasciando liberi i reduci del Triplete di sistemarsi la capigliatura nel modo che preferivano, possibilmente lo stesso che avevano adottato con Mourinho, ma senza dichiararlo per non aumentare la nostalgia. Se però ad esempio Javier Zanetti non aveva avuto dubbi a pettinarsi sempre con la riga a sinistra come un uomo degli anni quaranta, Marco Materazzi, investito a sorpresa del gravoso compito di marcatura di Zlatan Ibrahimovic, qualche incertezza in più l’aveva provata, e alla fine aveva pensato di copiare la soluzione estrema “alla moicana” di Robert De Niro in Taxi Driver. Davanti allo specchio di casa, prima di eseguire il taglio, Marco si preparava a sfidare il suo peggior ex amico, incapace di comprendere che i nervi gli stavano per saltare definitivamente. http://www.youtube.com/watch?v=Zduq4YGmiUw

Una volta in campo, Matrix se ne sarebbe reso conto troppo tardi, quando già era in scivolata sul prato bagnato di San Siro per travolgere il centravanti svedese appena dentro l’area di rigore interista. Palla sul dischetto e uno a zero per il Milan al quinto minuto del primo tempo.
Il resto della partita sarebbe stata una sfilata di pettinature, con i calciatori nerazzurri costretti ad ammirare le scelte estetiche sopra la fonte dei ragazzi di Allegri.
Via il berretto, e Seedorf aveva mantenuto il suo intelligente cranio rasato, Pirlo la sua svolazzante testa ondulata, Thiago Silva i suoi corti riccioli brasiliani.
Dall’altra parte, Materazzi Taxi Driver era solo il più evidente sbaglio di un barbiere poco ispirato, senza il coraggio di abbassare l’esplosione forestale del bambin Coutinho (Paulo Roberto Coutinho), di porre rimedio all’aeroportuale avanzata centrale del ciuffo di Pandev, d’impedire il disegno a trecce-righe curve sul capo dell’infatti presto infortunato Obi.

venerdì 12 novembre 2010

Serie A: Brescia-Juventus (L’ineducato Garrone, Cassano che ride e il concetto di genio racchiuso in un tiro di Diamanti)

La notizia mi giunge nel cervello poco prima che inizi Brescia-Juventus.
“Riccardo Garrone, presidente della Sampdoria, è pronto a chiedere la pena di morte per Antonio Cassano”. La scritta compare veloce in basso sul teleschermo, evidenziata dallo strillo: ultim’ora. “Se ritenuto colpevole, Antonio da Bari vecchia verrà probabilmente giustiziato in Cina, i buoni rapporti tra l’Italia e il Paese di Hu Jintao dovrebbero facilitare l’estradizione del pericoloso fantasista”.

Di quale atroce delitto si è macchiato il numero 99? Nessuno lo sa con precisione tranne i diretti interessati. Qualcuno fa finta di saperlo, altri esprimono la loro opinione basandosi sul “sentito dire”. Sì, gli ha detto “vecchio di m.”, ma in una discussione potrebbero contare altre cose avvenute prima dell’insulto.

Dopo il lancio d’agenzia è arrivata l’intervista di Garrone da Genova alta che, parlando con la bocca stretta come fanno certi ricchi, ha detto che Cassano è un ineducato, che Del Neri l’aveva avvertito e lui non gli aveva creduto, che Cassano è una persona fragile. Quindi non gioca più, nonostante le scuse.

Guardavo il presidente del Doria e pensavo a quello che avevo letto il 2 novembre su Repubblica. Un articolo di Gabriele Romagnoli che, sottolineando le lampanti differenze tra il calciatore e il petroliere, tra le altre cose ricordava come l’industriale fosse sopravvissuto un po’ a tutto nella sua vita, “compreso un processo penale per corruzione seguito all’apertura lampo di un impianto a Siracusa (assolto in secondo grado o salvato dalla prescrizione per altri addebiti)”.
Guardavo la bocca stretta del benzinaio Erg e pensavo: “c****, questo qui è uno che non perdona”. Poi chiedevo scusa a Riccardo per aver detto c****. Ma lui lo stesso non mi faceva più scrivere.

Stavo ancora sorridendo amaro, stupito da certe questioni di principio sollevate da pulpiti salvati dalla condanna penale per prescrizione, quando Garrone ha smesso di parlare al cronista per rivolgersi, rugoso e spietato, proprio a me.
“Cosa hai detto Savio??”
“Niente presidente, dicevo solo ma non lo sapevi che Cassano era così? Credevi di aver comprato Del Piero? E dai poteva andarti peggio, se pigliavi Balotelli? Antonio rispetto a Mario pare quasi San Francesco”.

San Francesco magari no, tuttavia credo che il maleducato Cassano sia il solo giocatore ancora capace di ridere in campo. Prima, durante e dopo la partita con gli avversari, calciatori e allenatori. Cassano ride e scherza, in un ambiente dove le conferenze stampa dei Mister sembrano interviste a chirurghi che hanno appena operato pazienti a cuore aperto, o a Capi di Stato che hanno deciso di dichiarare guerra allo Stato canaglia di turno. Perché gli allenatori italiani non perdono mai per colpa loro, ma sempre per colpa dell’arbitro.
Il sorriso cafone di Cassano mi manca già, e se esistesse un tribunale della bellezza, la persona da giudicare sarebbe Garrone, che con la sua sospetta intransigenza sta privando il pallone di uno che si diverte ancora a prenderlo a calci.

Ragionavo così quando, dal vertice sinistro dell’area di rigore, Diamanti ha tirato fuori un incredibile colpo di punta esterno che, seguendo la traiettoria di una spada curva e invisibile, ha sfiorato la testa di Chiellini senza decapitarlo, prima d’infilarsi nel sette alla sinistra di Storari. Un goal mostruoso, che i replay successivi avrebbero mostrato più volte in tutta la sua unicità. Un’idea di tiro che solo ad un matto come Cassano poteva venire in mente. Quindi nello stadio della mia città, con il cuore diviso a metà, mi sono alzato ad applaudire, senza riuscire a smettere. Ma che goal hai fatto Antonio?? Per fortuna che sei tornato.

lunedì 8 novembre 2010

Serie A: Inter- Brescia (Il viaggio di Jeanne e quello di Eto’o)

Noleggiare un film da Blockbuster è sempre più difficile. Da qualche anno il catalogo è stato smantellato, e per un appassionato di cinema trovare pellicole che si elevino al di sopra della mediocrità tanto cara alla maggioranza degli italiani bisogna brancolare nel gialloblu per almeno un quarto d’ora. Qualcuno potrebbe obiettare: “ma un appassionato di cinema non si reca da Blockbuster per trovare un film decente…” Giusto, ma è anche vero che videoteche migliori non sono così vicine a casa.

Il miracolo tuttavia può accadere, e al calare di un pomeriggio scorgo sullo scaffale “Il viaggio di Jeanne” (Les Grandes personnes) di Anna Novion. Mi dirigo in cassa dove mi attende una coda poco piacevole, con i poveri commessi schiacciati dalla massa italiota del sabato che pressa e sbuffa. Mogli vestiste come baldracche, mariti palestrati con i pantaloni a vita bassa programmano una brutta serata che ringraziando il cielo riguarderà solo loro, adagiati sul divano a visionare un pessimo film, tra mitragliate di telefonate e messaggini.

Riesco a noleggiare “Il viaggio di Jeanne”, superando il commesso che da consumato piazzista obbligato mi offre di tutto, l’importante è che non esca dal negozio “solo” con “Il viaggio di Jeanne”. Se aggiungo 3 euro posso prendere altri due film, da consegnare entro 48 ore. No, grazie. Se aggiungo 1 euro mi porto via una confezione di M&M’S, quelli con le noccioline. No, grazie. Se aggiungo il cofanetto del Decalogo di Kieslowski euro ho diritto ad uno sconto del 50% sulla mia futura bara in legno di cirmolo, molto pregiato. Cristo, finalmente una proposta definitiva. Mi complimento col piazzista, accetto e corro a casa.

Con i francesi vai quasi sempre sul sicuro. Il loro cinema sta in equilibrio, il nostro no. E’ come se abitasse una dimensione speciale, che un tempo ci riguardava. Ma adesso no, e non capisco perché. Cioè lo intuisco ma non ho tempo di spiegarlo perché comincia Inter-Brescia. O meglio la squadra di Iachini contro Eto'o, stupendo numero 9 che gioca con i nerazzurri. Uno che se di lavoro fai il difensore del Brescia, prima di scendere in campo perdi almeno cinque minuti davanti al crocifisso nello spogliatoio pregando che si prenda una storta nel riscaldamento.

Niente da fare, e lui ti punta, finta, modella la bellezza dei suoi lunghi muscoli per scatti che ti lasciano sul posto, quasi abbattuto nel tuo destino di giocatore “normale”. Ma ti fai forza, gli altri dieci di Benitez non sono così di un altro pianeta e allora disputi un bel primo tempo, vai in vantaggio con il tuo centravanti/capitano e poi al riposo vincendo a San Siro contro i campioni d’Europa.
Il secondo tempo te lo immagini già. Stringere i denti e difendersi senza abbassarsi troppo, sperando che Diamanti controlli i nervi ed inventi qualcosa in contropiede. Passano i minuti e quasi ci credi. Poi ricordi che ad un arbitro, se vuole fare carriera, certi rigori che non ci sono alle squadre di vertice bisogna fischiarli comunque, anche se il giocatore stupendo è rotolato da solo sul pallone come un bambino. Pazienza, hai fatto il possibile. Non hai vinto ma non è colpa tua. Porti a Brescia un punto dopo cinque sconfitte consecutive. Certo aggiungendone altri due, avresti avuto uno sconto su quelli che ti mancano per rimanere in serie A.

domenica 7 novembre 2010

I valori del calcio nel settore giovanile e scolastico e nell'attività di base FIGC CRL

Ecco il video ufficiale del Campus della FIGC (settore giovanile scolastico) di Salice Terme, prodotto e diretto da Officina27, al quale ho collaborato con la stesura della storia originale.

Un estratto del testo:
Mi hanno presa a calci fin dall’inizio.
La prima volta che l’hanno fatto, gli italiani avevano tutti una maglietta bianca, perché era quella che costava meno. I pantaloncini e i calzettoni invece erano di tutti i colori. Avrebbero potuto mettersi d’accordo.

Ho perso la testa per piedi speciali. Quelli di Silvio Piola e Giuseppe Meazza.
Ho ascoltato i consigli di Vittorio Pozzo a ragazzi che, io lo sapevo già, sarebbero diventati campioni del mondo. Prima a Roma e poi a Parigi.

Mi sono messa a piangere per Valentino Mazzola e i campioni del Grande Torino.

Sono tornata a divertirmi una sera d’estate del ‘68, quando l’Italia è diventata campione d’Europa.
Due anni dopo in Messico ho pensato di regalarvi una partita straordinaria. Ho imparato ad amare nello stesso modo le carezze dolci di Gianni Rivera, e gli schiaffi senza appello di Gigi Riva.

In tutti questi anni ho cambiato faccia tante volte, ma sono rimasta sempre la stessa.

Nell’estate del 1982 ho visto Enzo Bearzot portato in trionfo dalla sua squadra.

Mi sono spaventata dentro notti magiche, osservando gli occhi enormi di un ragazzo siciliano.

Nel ‘94 ho cercato di riscoprire l’America seguendo sul prato le idee di carta di un rivoluzionario.

In Germania mi sono lasciata proteggere dai guanti di Buffon e dalla tranquillità dei tacchetti di Grosso.
Fabio Cannavaro mi deve ancora un pizza, e Marcello Lippi un sigaro.

lunedì 1 novembre 2010

Serie A: Milan-Juve-Houellebecq (Tutte le carte in regola per essere francese)

Ho tutte le carte in regola per essere francese, come Piero Ciampi aveva tutte le carte in regola per essere un artista.
Da piccolo, chiedevo a mio padre:
“Papà, perché non siamo francesi?”
Lui rispondeva enigmatico:
“Comincia ad andare bene a scuola, e si vedrà…”

Crescendo, pur non essendo schiavo delle mode, alcuni capi d’abbigliamento marchiati Lacoste e Le Coq Sportif, finivano con l’attrarre il mio gusto più di altri, e quando raramente il portafoglio me lo consentiva, acquistavo qualcosa con il coccodrillo o il galletto, subendo la garbata ironia di mia sorella che m’intimava di essere vittima della moda. Eh no, le rispondevo, mi piacciono perché sono di buona fattura. Questo però non la convinceva.
Anni dopo sarei tornato alla carica, sostituendo la letteratura all’abbigliamento, ovvero raccontando a mia sorella quanto mi fosse piaciuto La Carta e il territorio, dello scrittore francese Michel Houellebecq.

Cosa c’entra questo inizio con Milan-Juventus di sabato sera è difficile dirlo, forse c’entra di più col fatto di non aver accettato pienamente il consiglio di mio padre, specialmente per ciò che riguarda i compiti in classe di italiano, che svolgevo a modo mio, subendo talvolta dai professori qualche segno in penna rossa del tipo “qui sei andato fuori tema”. Ma insomma, stare sempre nel tema che noia.

Parlare di questo non c’entra con Milan-Juventus, e l’alternativa era iniziare con la storia delle due gattare che, verso sera, si contendono le strade del mio quartiere. Una in bicicletta, l’altra al volante di un’automobile caratterizzata dall’inquietante presenza di sacchetti e piattini di plastica che finiscono con lo stipare sedili posteriori e baule, fornendo al passante l’immagine di una macchina sul punto di esplodere e gettare intorno crocchette e scatolette di mangiare per felini.
Sorvolando sui disturbi mentali che trasformano certe donne in gattare, ho visto in quella ciclista la Juventus, e in quella patentata il Milan.

La gattara Allegri ha cominciato bene la partita, grazie soprattutto a un meraviglioso incrocio dei pali colpito da Ibrahimovic. Dopo il primo quarto d’ora di supremazia rossonera, molti gatti juventini hanno allora pensato di essere spacciati, il cibo non sarebbe bastato per tutti, e gli unici a mangiare sarebbero stati i gatti milanisti, con il loro pelo morbido e lucente.
Ad un certo punto però Mamma gatta bianconera, dall’alto dei suoi 36 anni, ha guidato un pericoloso contropiede, peraltro concludendolo troppo egoisticamente, andando al tiro quando avrebbe potuto servire un compagno. Era comunque un segnale.
Qualche minuto dopo, un cross di De Ceglie dalla sinistra esaltava lo stacco e il colpo in sospensione di Quagliarella, che di testa mandava la palla nell’angolo in alto alla destra di Abbiati, complice il sonno di Antonini che evitava di contrastarlo per ammirarne meglio il gesto.
La Juve in bicicletta era in vantaggio, e la gattara Del Neri si metteva a posto soddisfatto gli occhiali bianchi e neri.

Il Milan continuava a creare occasioni di rete, ma in prossimità della porta difesa da Storari qualcosa andava sempre storto. Sfortuna, parate, imprecisione ed eccessiva leziosità aiutavano una Juve grintosa e ben organizzata, capace di rendere inoffensivi sia Pato che Robinho.
Il raddoppio della squadra di Torino era conseguenza della famosa legge riguardante la punizione inferta a chi spreca troppo. Ancora Antonini sbagliava il tempo di un’uscita difensiva, la palla finiva a Sissoko che, con la velocità di uno che non capisce cosa sia quell’oggetto dalla forma circolare che gli rotola tra i piedi, riusciva prima a ciabattare in modo ignobile, poi a servire all’indietro sempre lui, Del Piero, monumento vivente della bellezza del calcio, che con un diagonale di collo trafiggeva un immobile Abbiati. Milan 0, Juventus 2.

Seedorf e Inzaghi cercavano di convincere i gatti loro compagni di squadra che non si trattava di un concorso di bellezza teso a stabilire quale felino fosse più bravo a giocare con la pallina di spugna. Lo scopo della serata era far finire la pallina dentro quella rete bianca, protetta da un gatto con i capelli un po’ i piedi, una maglietta di rara bruttezza bianca con una manica rossa e una verde, e le calze sopra il ginocchio. L’unico a capirlo tuttavia era Zlatan, il gatto svedese, che dimenticato dai difensori avversari accorciava le distanze con facilità incornando da pochi passi.

I cinque minuti di recupero trascorrevano lenti per i gatti bianconeri, che per farli passare più in fretta si mettevano a correre a turno con il pallone fino alla bandierina del calcio d’angolo più vicina, troppo veloci per gatti rossoneri che provavano gli ultimi, poco convinti assalti.

Nel post-partita, Silvio Berlusconi consigliava alla gattara Allegri di pettinarsi (lisciarsi il pelo), prima di andare a farsi intervistare in sala stampa, e così l’unica gattara contenta alla fine era Gigi Del Neri, ovvero quella in bicicletta. Ma per il controllo definitivo della distribuzione di cibo per gatti nel quartiere, ci sarà da aspettare fino a maggio.