lunedì 28 febbraio 2011

Il posticipo: Juventus-Bologna (Juve senza Morselli)



“Si vede che è destino dei grandi avere a che fare con i mediocri”.
Pare che abbia pensato questo Alessandro Del Piero, prima di comunicare la scelta di firmare in bianco l’ultimo anno di contratto con la Juventus. Stufo di qualche tira e molla di troppo con la società di Corso Galileo Ferraris, pare che abbia pensato:
“Facciamo così, io la settimana prossima passo in sede a firmare, la cifra mettetela voi”.

Colto di sorpresa dalla notizia, Beppe Marotta, astuto architetto della Juventus più scarsa degli ultimi cinquant’anni, ha tirato un sospiro di sollievo, ma gli è rimasto sul gozzo, bloccato dalla pessima figura che ormai aveva fatto di fronte a tanti juventini e alla storia, che certo non avrebbe avuto dubbi nell’indicare quale fosse il mediocre tra lui e il capitano. Unica consolazione da esperto uomo di mercato: il milioncino di euro risparmiato con Del Piero, l’avrebbe potuto sottrarre ai trentacinque spesi per Bonucci, Pepe e Martinez.

“Si vede che è destino dei grandi avere a che fare con i mediocri”.
Pare che pensasse questo Guido Morselli, quando riceveva rifiuti da editori addormentati, incapaci di percepire il valore dei suoi romanzi.
“Avanti così e già che sono stanco da morire, va a finire che mi ammazzo”.

“A metà degli anni settanta, l’Italia finì sull’orlo di un’autentica rivoluzione (la prima, dacché l’Italia esiste). Il governo aveva deciso la riduzione allo stato dilettantistico, o “deprofessionalizzazione”, dei giocatori delle squadre di calcio, nonché un taglio del 60% dei loro emolumenti. Da Ferrara a Siracusa la piazza insorse. A Roma, gli insorti occuparono il Campidoglio e fu proclamata la Repubblica autonoma della Lazio, alla cui testa si pose un decemvirato di cittadini “tifosi”, cioè appassionati spettatori di gioco, o capi delle associazioni interessate. (…) L’autorità venne a patti e concesse, a Roma e nell’intera Penisola, per i rivoltosi l’amnistia e per i giocatori piena reintegrazione nei loro diritti. Si rimangiò i provvedimenti e con ciò l’ordine fu ristabilito”.

Questo era Guido Morselli, con il quale in una Roma senza papa (per la precisione da Filippetto a Piazza Navona, il ristorante degli ecclesiastici di passaggio) ho assistito a Juventus-Bologna.


Sorretti dal clima, dal sole che illuminava le nostre camicie, abbiamo deciso di pranzare all’aperto (la piazza chiusa ai veicoli garantiva tranquillità). Ma avevamo sottovalutato il bisogno profondo degli italiani di sonorizzarsi, la loro ingegnosità inesauribile. Il Comune aveva infatti installato nella piazza vari ventilatori allo scopo (apparente) di ravvivare l’aria. Apparecchi solitamente in tutto il mondo silenziosi, non qui, dove il sindaco aveva suggerito ad suo parente dipendente dell’Ufficio ventilazione di azionarli con motori potenti, probabilmente da motocicletta, capaci di fornire la dose di decibel necessaria a mettere il luogo a livello della media generale di rumorosità.

Così abbiamo parlato a fatica, e guardato la partita. Io comunque, ho provato a dire a Guido quanto mi avesse imbarazzato leggere i suoi romanzi. Quanto la sua bravura mi avesse fatto sentire inadeguato e, più prosaicamente, quanto gli invidiassi il vitalizio paterno che gli permetteva di dedicarsi senza l’obbligo di lavorare alla lettura, allo studio e alla scrittura. Non sono certo mi abbia sentito.

Con l’autore di Dissipatio H.G., abbiamo sorriso ancora prima dell’inizio, osservando il povero Del Neri in panchina cercare a ripetizione con la mano destra la tasca del cappotto con dei movimenti continui e convulsi, prima di accorgersi che il suo cappotto no, non aveva tasche.
Dopo un pessimo primo tempo Marco Di Vaio, il giocatore di maggior talento in campo, ha steso con due grandi goal gli avanzi di quella grande squadra che, una volta, si chiamava Juventus.
Alla fine Morselli mi ha offerto il pranzo, felice per la vittoria della sua squadra di nascita. Io meno entusiasta ho pensato alla grandezza e alla mediocrità, e ai ventilatori che adesso prendevano il volo verso il cielo, poco alla volta meno rumorosi.

lunedì 21 febbraio 2011

Il posticipo: Inter-Cagliari (La fuga del signor Maicon)

Quando Paolo mi ha detto di avere un biglietto in più per andare a vedere l’Inter, ho pensato che non rappresentasse una coincidenza il fatto che io, da qualche giorno, stessi leggendo La fuga del signor Monde, romanzo del 1945 di Georges Simenon. E casualità non era nemmeno la visione di un’intervista del 1963 allo scrittore belga che, sempre negli stessi precedenti giorni, mi era capitato d’intercettare sulla Rai. Se a questi due indizi aggiungiamo i dubbi che Paolo già più volte mi aveva espresso in merito all’altalenante rendimento stagionale di Maicon Douglas Sisenando, terzino della sua squadra del cuore, sono arrivato alla prova che dovevo superare: l’unico modo di sdebitarmi con l’amico che, per la prima volta in vita, mi consentiva di guardare una partita al Meazza dalla postazione privilegiata del primo anello arancio, sarebbe stato quello di trovare una spiegazione convincente alla flessione temporale nel numero 13 interista.

Il romanzo di Simenon è la storia della scomparsa di Norbert Monde, in una fredda mattina d’inverno, mentre il suo autista lo portava come ogni giorno da trent’anni, alla ditta di import-export fondata da suo nonno. La partenza dalla stazione parigina di Gare de Lyon in direzione Marsiglia, spinto dalla voglia di vedere il mare, una fuga naturale perché sognata da tempo, e scattata chissà perché proprio quel giorno. Forse perché era quello del suo compleanno. Forse perché quel mattino, fissandosi allo specchio, si era visto per la prima volta con i propri occhi, e non con quelli indifferenti degli altri.

Sul tram numero 16 con Paolo e Simenon, l’inventore della Fuite de Monsieur Monde ci raccontava la sua storia di scrittore prolifico e poliedrico, il suo metodo di lavoro (che prevedeva sempre una prima stesura in matita con minuscola calligrafia, in ordinati quaderni poi da battere a macchina). Il suo trucco per scegliere i nomi dei personaggi dalla guida telefonica, fino a quando qualche vivo non si era sentito chiamato in causa, illudendosi con vanità o preoccupazione di essere personaggio. Ed il suo primo incontro con André Gide il quale, dopo averlo fatto accomodare in una stanza dall’editore Gallimard, aveva chiuso la porta a chiave, invitandolo a sedersi. Impaurito, Georges Simenon aveva subito l’interrogatorio dell’autore de I sotterranei del Vaticano, a cominciare dalla domanda:
“Simenon, a che età lei è diventato il suo personaggio?”
Con Georges prima incapace di capire il senso del quesito e se il medesimo era diretto a lui o al Commissario Maigret. Poi costretto a rispondere che lui, in realtà, non si era mai sentito il personaggio di se stesso, ma solamente Georges Simenon.

Varcati i tornelli, io e Paolo senza difficoltà, Simenon scrutato con sospetto da alcuni steward a causa della sua pipa, interpretata erroneamente come possibile arma di lancio, dopo il fischio d’inizio abbiamo potuto guardare i calciatori sul terreno di gioco a pochi metri da noi, sentendo il rumore dei contrasti, osservando l’affascinante sospensione aerea di certi stacchi per colpire di testa. Lo stadio verticale, meraviglioso nella sua rumorosa bellezza, pareva imprigionare i ventidue in campo, proponendo come risultante una partita non bella, decisa da un goal di Ranocchia in fuorigioco.

Lungo la fascia, lo svogliato Maicon più che correre camminava veloce, come lasciando aperto solo uno spiraglio dalla porta del suo potente e luminoso talento. Quando un’azione che lo riguardava terminava male, compiva il gesto del pugno contro l’altra mano aperta, come a dire: “Che peccato”. Oppure, più credibilmente: “Ma vaffanculo”.
Poi rientrava in difesa, velocemente moderato, chiedendo ad un ignaro capitan Zanetti:
“Javier, perché proprio quel giorno?”
“Cosa??”
“Sì capitano, tu lo sai? La fuga del signor Monde, perché proprio quel giorno?”

lunedì 14 febbraio 2011

Il posticipo: Juventus-Inter (Ritratti di Matri Malamud)

Da quando in libreria ricopro il ruolo di cassiere, devo ammetterlo, nel tempo libero vago per le strade di Milano ed entro nei negozi, per osservare da vicino le cassiere mie sorelle. E va bene, se erano belle le guardavo anche prima. Però adesso spio con maggiore attenzione le loro dita sfiorare lo schermo, spesso con unghie egregiamente smaltate, poi accarezzare i soldi che mi danno di resto. Nel tintinnio delle monete tuffate nel cassetto invece, sento le campane della mia immaginaria epifania.

“Non preoccuparti se sei lenta o se s’inceppa lo scontrino, sono cassiera anch’io quindi ti capisco, direi quasi ti voglio bene lo stesso. Non farò come quel bestiame italiota sbuffante in coda, che adesso ti guarda con maleducato e ignorante disprezzo, come se la colpa dell’attesa fosse tua, e che poi forse si riverserà nelle piazze per manifestare, suonando il tamburello o facendo roteare in aria anche più di quattro palline. Sì, saranno di certo questi giocolieri che cambieranno il nostro Paese”.

Quindi mi metto a seguire Arthur Fidelman, pittore fallito per sua stessa ammissione, a sua volta pedinato nelle strade di Roma dall’ebreo Shimon Susskind. Un duplice inseguimento dal quale una sola persona trae un indubitabile vantaggio, io. Posso infatti studiare la bravura di Bernard Malamud nel libro numero 37 della fondamentale collana minimum classics: Ritratti di Fidelman (minimum fax). E sottolineando con stupore i periodi migliori, posso spingermi addirittura a pensare il difficile quasi impossibile: che Milano diventi Roma, che qualcuno mi offra una lavoro a Roma, in definitiva che io possa un giorno vivere a Roma.

Giunto in Italia per scrivere una monografia critica su Giotto, Arthur Fidelman s’imbatte per caso in Susskind, “ebreo profugo da Israele”, che inizia a chiedergli soldi, un vestito, qualcosa. Da questo momento, i tentativi di liquidarlo di Fidelman sbattono contro la molteplicità dell’ebreo venditore ambulante, che non vuole tornare in Israele perché a Roma almeno “non ha mai pensieri”.
Fidelman fugge in taxi, ma con la sensazione che Susskind, tutto rannicchiato, sia appeso alla ruota di scorta, dietro l’auto. Nei giorni successivi è il profugo a materializzarsi misteriosamente nei luoghi che Fidelman frequenta: camere d’albergo, trattorie. Come se conoscesse in anticipo i movimenti di Arthur, fino a quando la borsa di pelle di cinghiale che conteneva il manoscritto su Giotto scompare. Qualcuno l’ha rubata, e Fidelman si convince che il ladro sia Susskind. Ma perché? La borsa e quel tentativo di libro non hanno alcun valore…

Camminando lungo l’alzaia del Naviglio Grande, con lo sgomento di trovarlo senz’acqua (perché poche cose sono fastidiose come partire da casa per passeggiare parallelo ai navigli, e trovarli disperatamente vuoti) mi sono messo allora a seguirli con maggiore decisione Fidelman e Susskind, mantenendo però una distanza di sicurezza. Con il desiderio di attraversare uno dei ponti e ritrovarmi magari a Roma nel quartiere Prati, sono sbucato invece a Torino, in corso Sebastopoli. Dentro lo stadio Olimpico, in tribuna Est, Susskind guardava Fidelman mentre io osservavo loro, e un po’ la partita. Un biondo terzino diciannovenne e danese, con un ingaggio di euro ventimila, teneva testa al più forte giocatore africano, che guadagnava cinquecento volte di più. Da buon cassiere provavo a contare quante banconote da cinquecento servivano per fare ventimila. Facile. Poi quante ne occorrevano per raggiungere dieci milioni di euro. Dovevo pensarci, ma di certo nella mia cassa quella cifra non ci sarebbe mai stata, nemmeno pressando i soldi il più possibile nel cassetto cercando di chiudere il coperchio d’acciaio con la forza.

Intanto, con un preciso colpo di testa, il giovane Matri al ventinovesimo minuto metteva a segno il goal partita: Juventus 1, Inter 0. A Torino non faceva così freddo per essere inverno, ma Shimon Susskind lo stesso accendeva un fuoco sugli spalti con dei fogli di carta fiammeggianti. Ad Arthur Fidelman non pareva possibile riconoscere in quelle pagine dattiloscritte il primo capitolo della sua monografia critica su Giotto.

lunedì 7 febbraio 2011

Il posticipo: Cagliari-Juventus (Puntonate a Villa Torlonia, o il raddoppio dei pomeriggi)




Il raddoppio dei pomeriggi sembrò ai più la soluzione migliore. Si trattava di compensare, seppur con troppi anni di ritardo, l’uccisone di quella parte di giorno creata per sviluppare il talento individuale, o la passione preferita. E così, dopo il mattino trascorso al lavoro, il pomeriggio trascorso al lavoro, il secondo pomeriggio sarebbe stato dedicato a leggere finalmente con calma, in alcuni casi addirittura a scrivere, oppure a giocare a calcio al parco durante la bella stagione, a guardare un film nei mesi più freddi, oppure Rai Storia.
Guardare la storia, non era forse il modo più bello per ripercorrerla o scoprirla, comodamente seduti sul divano, eppure trasportati nel mondo con l’affascinante possibilità di vivere epoche lontane e differenti?

Nei giardini di Villa Torlonia, Benito Mussolini colpiva il pallone di punta, senza stile, come un bambino sovrappeso e goffo. Era il tentativo di cavalcare mediaticamente i successi della grande Italia di Vittorio Pozzo dimostrandosi abile pedatore, sotto lo sguardo divertito di Galeazzo Ciano e delle cineprese dei cinegiornali. Ma le sue erano puntonate inutili, dannose e imprecise per i compagni di squadra che tuttavia, anche di fronte a certe svirgolate clamorose del capo del fascismo, erano pronti ad ammettere di non essere scattati abbastanza, di non aver capito il suggerimento.
“Scusa Ben, colpa mia!”.

Qui non si vuole giudicare il Duce dittatore, ma il Mussolini calciatore, e da questo punto di vista mi sento libero di affermare che Benito non aveva talento, forse perché anche a lui mancava tremendamente un secondo pomeriggio, da passare a fare palleggi contro un muro per migliorare la propria tecnica individuale. Per chi volesse invece conoscere Mussolini sotto altri aspetti, consiglio la lettura di Muss. Ritratto di un dittatore, saggio atipico di Curzio Malaparte a metà strada tra biografia e racconto aneddotico. Un lavoro breve del grande scrittore di Prato, fondamentale pure per raccogliere essenziali informazioni sul popolo italiano.

Detto questo, per non rischiare il licenziamento come inviato di Quasi Rete, ho schiacciato Est con il telecomando per ritrovarmi al Sant’Elia di Cagliari, non prima di aver annusato e morso dell’ottimo pecorino sardo. Con piacere e dopo molto tempo, ho notato che la Juventus si era dotata di un centravanti. Il suo nome era Alessandro Matri, aveva il numero 32, e se nella partita precedente aveva sbagliato un goal fatto, era stato sfortunato in una seconda occasione, ed era incappato come tutta la Juventus in un arbitro in malafede che gli aveva negato personalmente uno dei tre rigori non assegnati alla squadra di Del Neri (si noti, a proposito, la spiegazione della malafede come “carattere predominante del popolo italiano” a pagina 67-68 del Muss. di Malaparte), nella serata di sabato si era presentato ancora con un tiro sbagliato, solo davanti al portiere. Però, probabilmente voleva dire che Matri almeno “c’era”. Sarebbe stata solo una questione di tempo, perché Alessandro pareva conoscere l’intuizione di trovarsi al posto giusto nel momento giusto, chissà se imparata in uno dei pomeriggi raddoppiati di quando era ragazzino.

martedì 1 febbraio 2011

Il posticipo: Inter-Palermo (Revolutionary Pazzini)


Conosco decine di scrittori che sarebbero disposti a vendere la madre per scrivere il romanzo perfetto, altri ai quali il sacrificio materno dispiacerebbe relativamente, se ricompensato da un posto nella classifica dei libri più venduti. Per quanto mi riguarda, la perfezione altrui quasi mi commuove, ma anziché invidiarla l’ammiro, anche perché di vendere mia madre proprio non se ne parla. Resto stupito, mi sfrego le mani oppure faccio un respiro profondo, ad esempio quando ricordo la bellezza di un romanzo come Revolutionary Road, di Richard Yates.

E se, consapevole dei miei limiti, desidero qualcosa, è che la fortuna o l’ispirazione mi porti un giorno a scrivere almeno una pagina della quale essere completamente soddisfatto, se non addirittura fiero. Oppure un finale magistrale e splendente, come questo:
“Ma da questo punto in poi Howard Givins udì soltanto un tonante, piacevole mare di silenzio. Aveva spento l’apparecchio acustico”.

E’ con questo spegnimento che si conclude Revolutionary Road, un movimento verso lo zero uditivo esercitato dal vecchio Givins, stufo di ascoltare le noiose e pettegole valutazioni della moglie riguardo ai coniugi Wheeler. Un azzeramento linguistico, una sorta di “non esserci più” bianciardiano nel quale mi riconosco quando, ogni mattina, passo sei ore nella teca in vetro della cassa numero 7. Entro nella mia capsula trasparente, e penso al signor Givins, e al fatto che se essere sordi rappresenta senza dubbio uno svantaggio, il poter non ascoltare invece decisamente no. Quindi ruoto il volume del mio apparecchio fino al nulla, e mi concedo alla vista dei clienti in coda: italiani dallo sguardo rabbioso e insofferente nei confronti di chi li precede o segue o del cassiere-scrittore, assorti in una cattiveria individualista che rende plausibile l’idea che l’unificazione d’Italia sia stata frutto del caso.

Mai avrei pensato però, di essere costretto a difendermi con l’autoprocurata sordità anche domenica sera, unico espediente per non sentire alcune frasi dell’amministratore delegato della Juventus, che lo facevano sembrare sempre amministratore delegato ma della Sambenedettese.

Poi per fortuna, mi sono ricordato di una bella partita vista nel pomeriggio, giocata con coraggio e classe dalle due squadre in campo. Sotto 0-2, Leonardo ha dato un’occhiata alla sua ricca panchina:
“Pazzo, tocca a te.”
Nessuna risposta.
Anche Giampaolo aveva staccato l’apparecchio acustico.
Avvisato con un colpo sulla spalla da un compagno, ecco Pazzini riscaldarsi lungo la linea del fallo laterale, togliersi la tuta, mostrando a tutti il numero 7 fiammante.

Due goal, un rigore procurato: Inter 3, Palermo 2. Il neoacquisto nerazzurro non avrebbe potuto immaginare un esordio migliore nello stadio di Meazza, un Marassi moltiplicato per due e mezzo. Un diagonale rasoterra di destro tirato fuori dal niente spalle alla porta, una frustata di testa su cross di Maicon, eseguita con una felina rapidità da lasciare sgomenta la difesa del Palermo. E poi la consueta esultanza con il gesto delle due dita a indicare gli occhi, come a dire:
“Avete visto?”
Sì, anche se non stavo ascoltando.