lunedì 31 ottobre 2011

Il posticipo_Inter-Juventus (Tonio Kroeger Conte)



Se ne stava in disparte Tonio, ragazzo bruno dai lineamenti disegnati con nettezza meridionale, fra ragazzi biondi e azzurrini, a disagio nel suo essere altro rispetto ai compagni di scuola. Come Hans Hansen (ciò che avrebbe voluto essere) straordinariamente bello e ben fatto, largo di spalle e stretto di fianchi, due occhi come l’acciaio. Oppure come la bionda Inge, dotata pure di leggere efelidi sulla sella del naso, tipiche delle ragazze di carta in certi romanzi.

Perché Tonio era diverso? Perché mentre gli altri parlavano, lui provava dolore?
Che camminasse sul marciapiede a fianco di Hans (lui provvisto di agili gambe che procedevano con ritmata elasticità, Tonio invece con passo indolente e diseguale) o che osservasse la bionda Ingeborg Holm, trasognato nello scoprila degna d’essere amata solo perché circondata da una certa luce, mentre lei pareva avere occhi solo per il maestro di ballo Francois Knaak.
Tonio non aveva scampo. Diverso in un mondo di uguali, da quando si era saputo che teneva pure un quaderno in cui scriveva poesie la sua popolarità a scuola era crollata non solo tra i compagni, ma anche tra i professori. Comporre versi una pericolosa stravaganza, una sconvenienza, qualcosa di sconcertante.

E allora eccolo solitario Tonio, al parco, in disparte a leggere Schiller, quasi nascosto a bordo del campo dove con altri ragazzi giocavo a pallone. Scorgendolo, avevo dovuto insistere non poco prima di convincerlo ad unirsi a noi, ma con il passare dei giorni l’evidenza del suo talento era risultata chiara. Era proprio la sua andatura sghemba e a scatti a consacrarlo superiore a tutti noi, e dopo averlo perso di vista per qualche anno non mi aveva sorpreso vederlo esordire nel 1991 con la maglia della Juventus, lanciato da Giovanni Trapattoni. Accantonata l’idea di trasformasi in un scrittore affermato, Tonio aveva scelto il calcio, e la sua carriera avrebbe confermato la felicità della sua intuizione.

Terminata la vita da calciatore, ecco quella di allenatore e nell’estate del 2011 la realizzazione del suo più intimo desiderio: guidare la Juventus. Per quanto mi riguarda in vita invece niente di così bello e clamoroso, ma almeno il privilegio di poterlo osservare dentro la televisione allo stadio San Siro, una sera di fine ottobre. In piedi davanti alla panchina, Tonio adesso non prova più dolore, ma urla per novanta minuti.
Inter e Juventus consegnano alla storia del campionato una partita bella, aperta da un goal del montenegrino Vucinic, talvolta pure lui indolente come il Kroeger di Thomas Mann ma abile nell’occasione a togliersi le mani di tasca in tempo per ribadire in rete una respinta di Castellazzi al tocco sottoporta di Alessandro Matri: 0-1. I nerazzurri reagiscono e trovano il pari con un bel tiro di Maicon deviato da Bonucci, Buffon sul primo palo non c’arriva. Ma sono ancora i bianconeri a riportarsi in vantaggio per merito di un preciso triangolo Marchisio-Matri-Marchisio che consente al Saint-Exupéry di Torino di segnare dal limite con un colpo rasoterra ad effetto: Inter 1, Juventus 2. La squadra di Ranieri non ci sta, e Pazzini con uno splendido colpo di testa centra la traversa a portiere battuto, ma al quarantesimo del primo tempo l’arbitro Rizzoli riesce a non assegnare alla Juventus un rigore talmente netto che perfino l’interista Beppe Bergomi in cabina di commento, seppur con qualche curioso distinguo, avrebbe concesso. Castellazzi abbatte Marchisio che cercava di superarlo con un pallonetto d’esterno, e può far sorridere immaginare come l’episodio a maglie invertite avrebbe fornito (molto più del risibile a confronto contatto Ronaldo–Iuliano) al povero Moratti, sempre tristemente puntuale a vedere nelle sconfitte sul campo segnali di complotti universali e mai una legge dello sport, una sublime e quasi eterna opportunità di lamentazione. E poi chi lo sa, sarebbe potuta rinascere una nuova pseudo letteratura calcistica indignata fino a quando non si vince, alla Beppe Severgnini per intenderci o, nella peggiore delle ipotesi, la decisione di affidare all’amico Guido Rossi la distribuzione di titoli vinti sul campo da altre squadre.
Per fortuna comunque, l’arbitro non dava il rigore e si andava al riposo sul due a uno.

Nel secondo tempo il risultato non cambiava, con la Juventus impegnata a controllare le volenterose ma confuse idee di pareggio dell’Inter, sfiorando peraltro in tre occasioni la rete che avrebbe chiuso il match. Tonio Kroeger Conte correva in campo per abbracciare i suoi giocatori, invitandoli a festeggiare mano nel mano sotto il settore dei tifosi ospiti. Poi, nel rientrare sottoterra, forse pensava a quella lettera che non aveva mai scritto, nella quale tuttavia avrebbe affermato:
“Il mio amore più profondo e segreto appartiene ai biondi e agli occhi azzurrini, ai luminosamente vivi, agli esseri felici, amabili e comuni. Non biasimi quest’amore, Lisaveta; esso è buono e fecondo. C’è dentro un desiderio struggente, una malinconica invidia, un pochino di disprezzo e una grande, casta felicità.”

lunedì 24 ottobre 2011

Il posticipo_Manchester United-Manchester City (Mario Balotelli-Woolrich: sipario rosso e nero)



La sensazione di Cornell Woolrich era che il mondo fosse controllato da forze malvagie pronte ad avventarsi contro gli uomini. Un’idea di vita complicata che, dopo un’infanzia e un’adolescenza movimentate trascorse tra New York e il Messico, l’aveva spinto una volta adulto a passare da una pensione all’altra, accompagnato immancabilmente da una madre possessiva e tirannica dalla quale non riusciva e non voleva liberarsi. Stare nascosto a scrivere gli era sembrata la soluzione meno dolorosa, cercando di ridurre al minimo le uscite all’aperto, figuriamoci le passeggiate. Cornell insomma non si sarebbe lasciato fregare come l’amico Frank Towsend, scomparso da se stesso per tre anni prima di essere riportato alla propria vita da un pezzo di cornicione preciso nel colpirlo in testa.
Cos’era accaduto in quei tre anni di ombre? Sua moglie l’amava ancora? Perché un uomo vestito di grigio lo seguiva armato di pistola? Quante belle partite si era perso in tre anni di oblio? Perché capitavano sempre tutte a lui?

Nella sua fuga a protezione del passato e della propria identità Frank però non può contare che su Cornell, a sua volta impegnato nel trasformarsi in William Irish o in George Hopley per aggirare il contratto che lo lega in esclusiva al suo editore e poter così pubblicare per altri.

Frank Townsend, in testa il cappello con le iniziali di qualcun altro (MB) che tuttavia calza alla perfezione sulla sua testa, trova Woolrich nella sua stanza del residence “Le Rose” ubriaco marcio ma ancora intatto, inconsapevole che il peggio nella sua vita debba ancora arrivare: la morte dell’amata madre, l’alcolismo cronico che aggraverà le sue condizioni di salute, l’amputazione di una gamba, la fine in solitudine e paralizzato.
Ma almeno adesso, una visita troppo a lungo aspettata: quella di Frank, tecnico di Fastweb, compagnia che aveva garantito a Cornell il trasloco dei servizi in “soli” 30 giorni, all’incomprensibile costo di 70 euro. E in attesa che il fantomatico tecnico giungesse, nessuna possibilità di vedere alcuna partita su Sky, pur versando la quota mensile di 59 euro circa. Esasperato l’autore di “Sipario nero”, il calcio suo unico svago, la visione del medesimo oscurata pur pagando, ennesima riprova (a suo depresso avviso) di un mondo selvaggiamente indifferente al dolore degli uomini e pronto a schiacciarli con un’efficienza quasi impersonale.

E allora sotto di nuovo a scrivere, per far entrare almeno sulla carta lo smemorato Townsend nella sua stanza di residence, così tristemente simile all’ultima di Marco Pantani.
“Ben arrivato Frank. Prima di farci un bicchierino m’installi la videostation per favore?”
“Certo mio creatore, provvedo, poi scegliamo quale partita vedere, il derby di Manchester mi sembra la migliore.”

Nel Teatro dei Sogni, Frank Townsend osserva uno simile a lui sbloccare la partita al ventunesimo minuto e ventunesimo secondo del primo tempo, con un preciso colpo di piatto rasoterra indirizzato nell’angolino. Si tratta di Mario Balotelli, che dopo aver provato invano ad incendiarsi la casa appena due giorni prima giocando con dei fuochi d’artificio nel bagno, mostra una maglietta con la scritta: “Why always me?”. Ammonito. Il Manchester United non reagisce, anzi esce definitivamente dalla sfida al secondo minuto del secondo tempo quando Evans trattiene ingenuamente sempre SuperMario lanciato a rete. Espulso, e da questo momento i Citizens dilagano: ancora Balotelli che appoggia in porta dopo una bella combinazione Silva-Milner. Poi Aguero al volo fa tre a zero e Fletcher segna il goal della bandiera a dieci dalla fine, ma non è finita. Dall’ottantanovesimo in poi ci pensano Silva e due volte Dzeko a fissare un risultato storico per il derby di Manchester: United 1, City 6.

Il tecnico Townsend-Fastweb a questo punto non sta più nella pelle ed esulta spudorato, togliendosi il giacchettino con il logo giallo sulla schiena per mostrare all’inventore del noir perché finora è toccato sempre a lui. La sua t-shirt “Why always me?” è la medesima dell’italiano Mario, genio d’artificio. Poi il ritorno nel romanzo, sotto la penna frenetica e disperata di Cornell Woolrich, diavolo rosso triste e maledetto.

mercoledì 19 ottobre 2011

Il posticipo_ Lazio-Roma (La radiolina biancoceleste di Walt Whitman)




Lo ricordo come fosse ieri (invecchiando, almeno qualcosa resta, non tutto va perduto). Walt Whitman seduto da solo all’aperto, sulle spiagge di Long Island, tra le influenze dell’aria aperta, leggere il Vecchio e il Nuovo Testamento, poi Omero, Eschilo, Dante, Shakespeare.
Scorgendolo nei miei diciassette anni, intimorito dal suo splendore di non ancora poeta, io autodidatta come lui sebbene quasi geometra, leggendo invece “Il mestiere di vivere” di Cesare Pavese, sotto lo sguardo vacanziero ma turbato di mia madre:
“Perché mio figlio studia il mestiere di vivere invece che trovarsi un buon lavoro?”

Qualche anno dopo sempre Walt, vestito come un contadino, un operaio, reduce da un viaggio a New Orleans capace di trasformarlo in una foglia d’erba uguale a un giorno di lavoro delle stelle, questa volta sulla spiaggia di Ostia, questa volta a scrivere versi, così assorto nella necessità di trovare una risposta alla vita, alle domande che ricorrono, agli infiniti cortei di senza fede, agli occhi che bramano luce, ai poveri risultati di tutto…così assorto dal dimenticarsi che fosse domenica, e di essere ormai troppo lontano per tornare a casa in tempo alla Garbatella per vedersi il derby in televisione. Che fare?

Nella disperazione da appassionato, intercettare un venditore migrante da spiaggia e pagargli trenta dollari una radiolina, costo automaggiorato per compensare l’odioso tira e molla per abbassare il prezzo esercitato da certe carni umane sui salviettoni, abili a sfruttare penosamente il gran vantaggio di essere nati dalla parte giusta del mondo.
Whitman e la sua radiolina, io poco distante a origliare Tutto il Calcio minuto per minuto che racconta di Lazio-Roma.

Si gioca, dopo qualche incertezza relativa agli scontri di piazza del giorno prima, con la capitale messa a ferro e fuoco da ottocento black bloc non previsti da un Ministro dell’Interno jazzista, troppo impegnato ad esercitarsi (almeno il sabato) con il saxofono per occuparsi anche dell’ordine pubblico. Cinque minuti e la Roma passa in vantaggio con Osvaldo, freddo a superare Marchetti al termine di una bella combinazione José Angel-Pjanic-Gago. Quindi la partita sonnecchia fino a quando l’elegante Hernanes non decide di accendere la luce, trascinando con la classe dei campioni il resto dei compagni. Dribbling, tiri da fuori, anche il sollevamento di una zolla scagliata con violenza verso la porta giallorossa, parziale consolazione per tutti i privi di talento del mondo (anche i fenomeni brasiliani talvolta zappano).
Al sesto della ripresa Kjaer commette il fallo decisivo, trattenendo ingenuamente Brocchi lanciato a rete. Espulso. Il ballerino Hernanes questa volta non alza zolle e dal dischetto spiazza Stekelenburg con un calcio morbido e insieme deciso. Lazio 1, Roma 1.
Luis Enrique toglie Perrotta e mette Burdisso, ma i Lupi soffrono. Il biondoneropunk Cisse colpisce un palo splendido con una botta al volo, osservato dal suo allenatore incredulo e deluso (“anche stasera, non vincerò il derby”). Invece, al novantatreesimo, Miroslav Klose dimostra perché è ancora uno dei più forti bomber d’Europa: stop matematico su lancio-pallonetto di Matuzalem, piattone rapido ed è 2-1.
Il serio Edy Reja si trasforma in Carletto Mazzone e corre in campo, grigio e paonazzo, a cercare il suo centravanti tedesco-polacco preferito per ringraziarlo. Non lo troverà.
Klose è già sotto la curva Nord che recita ai tifosi in delirio:
“Io celebro me stesso, io canto me stesso.
E ciò che io presumo, presumetelo anche voi.”
Luis Enrique a occhi bassi verso il tunnel degli spogliaotoi è assai più pessimista, pur con un filo di speranza:
“Che cosa c’è di buono in tutto questo, ahimè, ah vita?
Che io sono qui, che esiste la vita e l’individuo, che il potente spettacolo continua, e io posso contribuirvi con un mio verso.”

giovedì 6 ottobre 2011

Il posticipo_Juventus-Milan (Il pazzo Allegri, il savio Conte, il piccolo principe Marchisio)



“Soprattutto quando ero bambino, la noia assumeva forme del tutto oscure a me stesso e agli altri, che io ero incapace di spiegare e che gli altri, nel caso di mia madre, attribuivano a disturbi della salute o altri simili cause.”
(Alberto Moravia, La noia)


Non era la prima partita che Balestrieri e Dino guardavano insieme, espediente come altri per stabilire chi dei due avesse ragione nei confronti della realtà. Balestrieri era forse un pazzo la cui pazzia consisteva nell’illusione di poter avere un rapporto con la realtà, ossia di essere savio, come cercavano di dimostrare le sue tele di anziano pittore. Dino era forse un savio la cui saggezza, però, consisteva nella profonda convinzione che tale rapporto fosse impossibile, in definitiva un savio che si credeva pazzo.

Stufi di dipingere, di fuggire dalla morte Balestrieri, dalla madre Dino, entrambi dall’amore e dal sesso con la bella Cecilia, graziosa ma dopo un po’ pure lei noiosa, nonostante i futili tentativi di Dino di appropriarsene in modo totale rubandola al Balestrieri, facendo l’amore con lei, coprendo il suo corpo nudo di banconote...nonostante tutto questo, la noia di quando era bambino prepotente ritornava, quello stato non contrario al divertimento comunemente inteso, anzi forma di divertimento essa stessa, perché capace di produrre distrazione e dimenticanza, sia pure di un genere particolare. Una noia come insufficienza, inadeguatezza, o scarsità della realtà.

E allora perché non alzare il telefono e chiamare Balestrieri, prima che morisse?
“Sono Dino, vediamoci in un bar dove danno Juventus-Milan, e confrontiamo ancora una volta le nostre realtà, pazzi o saggi.”

Oltre i rumori del locale abitato dai temibili tifosi delle fazioni contrapposte, divise in fondo solo da una riga bianca invece che rossa, oltre le loro grida arrossate, nel tavolino ad angolo, Balestrieri e Dino, senza dipingere donne o nature morte, guardavano.
La realtà sussurrava ad alta voce di una Juventus che correva, e di un Milan che camminava. Dei bianconeri di un frenetico Conte che attaccavano per vincere, dei rossoneri di un nervoso Allegri che speravano in un contropiede. Finiva 0-0, dopo una traversa di Vucinic e altri 18 tiri bianconeri (7 nello specchio della porta) contro i 5 dei rossoneri (1 nello specchio della porta). Troppe occasioni sprecate da una scalognata Juventus. Anzi no.
A tre minuti dalla fine, il piccolo principe Marchisio riceveva sul piede, sotto forma di rimpallo, tutta la fortuna che per ottantasette minuti si era crudelmente negata all’undici torinese, peggio di Cecilia quando disertava gli appuntamenti con Dino per mostrasi a qualcun’altro. Al minuto novantadue, ancora Marchisio questa volta al volo da fuori area, sorprendeva il poco concentrato Abbiati sotto le gambe. Juventus 2, Milan 0.
Balestrieri e Dino restavano con i loro quadri inconciliabili e differenti, con la loro idea privata e difforme di rapporto con la realtà. Allegri annoiato dal risultato preferiva litigare con l’opinionista Sky Mauro. Conte svociato nonostante le caramelle al miele pre-partita, rincorreva e abbracciava uno alla volta i giocatori che, almeno per una sera, avevano fatto resuscitare una Vecchia Signora.