lunedì 30 aprile 2012

Il posticipo_Roma-Napoli (Digiunando con Knut Hamsun)


Che bello esser matti, aver provato, almeno una volta nella vita, la gioia esplosiva di non fare niente. Stavo fuori sul marciapiede di Christiania, ad attendere che Knut scendesse dalla sua soffitta-bara col pavimento che cedeva a ogni passo, speranzoso di recuperare attraverso le sue parole quella gaia spensieratezza che s’impadroniva di me solo qualche anno fa, senza preavviso.

Eccolo, correre le scale senza far rumore per non destare l’attenzione della padrona di casa alla quale doveva un affitto che non era in grado di pagare, convincermi ad andare a scrivere al cimitero, perché sopra le tombe non c’era finzione ma solo necessità:
“Savio, con me al cimitero, poi si vedrà”.
Seguirlo, riflettendo su cosa nella giornata ci avrebbe potuto dare felicità.
Al camposanto, dopo aver scelto con cura la tomba più comoda, accorgersi di aver dimenticato le matite nei panciotti dati in pegno al monte sul Lungotevere dei Mellini, per non morire di fame. Dietro-front, non prima di aver osservato con sgomento una troupe televisiva intervistare ad altezza fiume un operaio che ha perso il lavoro a 47 anni, il proprietario di un ristorante in regola al quale la banca ha pignorato la casa, la figlia di un imprenditore suicidato perché amava il suo lavoro, ma era massacrato dalle tasse.

Sulla strada, una ragazza così bella da meritare di essere seguita almeno fino a casa, poi la visione dello Stadio Olimpico, irresistibile, la commutazione del primo perfetto capitolo di Fame di Hamsun con due biglietti della tribuna Monte Mario.
In campo, nel primo tempo il Napoli inizia con tre antipasti falliti da Zuniga, Fernandez, Hamsik. Ma poi alla Roma torna appetito, e il primo piatto è servito da Marquinho: 1-0. Nella seconda frazione però Mazzarri ricorda ai partenopei la loro fame ancestrale e il menù viene ribaltato da Zuniga con un gran tiro da fuori area e da Cavani con un meraviglioso giro dal limite. Pare finita, ma quando tutti sono pronti per il caffè il ciccione Simplicio decide di pareggiare la partita e recarsi in tribuna per baciare moglie e figlio a pochi metri da me e Knut: Roma 2, Napoli 2.

All’esterno di nuovo liberi e affamati, incontriamo un uomo che vedendoci digiuni in difficoltà ci regala dieci corone. Non si tratta di quel mediocre piccolo editore del centro Italia che da un paio d’anni deve a me e a Knut qualche migliaio di corone per nostri lavori letterari mai pagati, ma di un Commendatore di Christania che ci conosce appena. Imbarazzati accettiamo.
“Non vergognatevi ragazzi, so benissimo che in cambio potete scrivere qualche cosa”.
Ancora una volta avevamo superato il peggio, avevamo da mangiare per qualche giorno.

sabato 28 aprile 2012

lunedì 23 aprile 2012

Il posticipo_Juventus-Roma (Pedro Paramo, oppure Arturo Vidal)


Andai a Comala perché avevo letto che Juan Preciado vi si era diretto per trovare suo padre, Pedro Paramo, esaudendo così il desiderio di sua madre moribonda. Quando finalmente lei gli aveva liberato le mani vive dalle sue morte, Juan era partito. Arrivato a destinazione, ogni cosa era abbandonata, le case vuote e invase dall’erba capitana, ma soprattutto Pedro Paramo defunto sgretolato come se fosse un mucchio di pietre. La fine meritata di un tiranno. Meglio niente padre, che quel padre.

A Comala, mi era bastato osservare le stesse nuvole spumose che Juan aveva guardato come ultima cosa fare mulinello sopra la sua testa prima di essere ucciso dall’asfissia per girarmi e cominciare a correre a gambe levate, lontano da quel paese di spettri dove nessuna vita era possibile. Echi di voci mi facevano vento, fogli sportivi svolazzanti di quotidiani del sabato contenenti furbe menzogne calcolate mi rallentavano, circondato da fantasmi. Convinto comunque di andare veloce, ero stato doppiato da un cileno Arturo sorridente, con due uncini al posto dei piedi, appena uscito da una baracca-bar dove aveva buttato giù un paio di bicchieri di Pisco Sour.

Oltre le costruzioni in rovina, in periferia si stagliava la sagoma grigia di uno stadio luccicante. Sorpassando la gente in coda, ingannando le forze dell’ordine ancora scosse filosoficamente dalla consapevolezza di essere mandate allo sbaraglio ogni domenica a fronteggiare delinquenti da curva certi dell’impunità, il corridore Arturo si era fermato solamente all’interno dell’area di rigore per calciare in rete il pallone ricevuto da sinistra dal rosa-stellato De Ceglie: Juventus 1, Roma 0. Il tempo di battere il centrocampo, e ancora il cileno scaricava dal limite un diagonale angolato in movimento questa volta su assist di Mirko Vucinic. All’ottavo minuto, la partita era già conclusa, anche se tutti per differenti motivi facevano finta non fosse vero. Ci avrebbero pensato Pirlo alla mezzora su rigore prima parato da Curci poi no e Marchisio al cinquantaduesimo con un magro effetto dai sedici metri a fissare il risultato sul 4-0.

Sbrigato il suo dovere, a venti dal termine Vidal avrebbe ottenuto dall’allenatore un meritato riposo anticipato. In panchina, ricordando per un attimo il padre che l’aveva abbandonato a quattro anni con madre e cinque fratelli, Arturo sarebbe tornato con la memoria alla misteriosa e affascinante complessità di Pedro Paramo, ultimo lavoro letterario di Juan Rulfo, dentro il quale un figlio parte alla ricerca del padre. Dopo quel secondo libro, lo scrittore-copista di Città del Messico aveva ritenuto conveniente non scrivere più nulla: il terzo avrebbe potuto essere brutto. Si poteva vivere anche facendo solo il copista. O il centrocampista. Meglio niente padre, che certi padri.

domenica 15 aprile 2012

Il posticipo_Milan-Genoa (Quando Cassano scoprì Romain Gary)

Quando Antonio Cassano scoprì Romain Gary, poteva dirsi ormai completamente guarito. Il lasciapassare per tornare a giocare che i medici gli avevano firmato cinque mesi dopo l’intervento al cuore valeva per lui sensibilmente di più di tutti i soldi del mondo, al massimo pari dei baci della moglie Carolina.

Durante la convalescenza aveva scoperto un parte di se stesso nel Momò de La vita davanti a sé, impegnato a diventare grande negli anni sessanta di una Parigi in bianco e nero, e dopo l’ultimo allenamento a Milanello aveva deciso di mettersi in auto e di raggiungere Belleville.
Trovato il condominio in periferia, era salito per sei piani senza ascensore fino all’appartamento dove Madame Rosa si occupava dei bambini che avevano una madre prostituta e un padre ignoto, aveva bussato prima piano poi con insistenza, senza ottenere risposta.

All’interno, l’ebrea Madame Rosa in vestaglia rossa utilizzava i suoi novantacinque chili (troppi, per due gambe sole) per convincere Momò e gli altri piccoli figli di puttana a non aprire: e se fosse stata la Polizia francese risolta a caricare tutti sui camion per portarli prima al velodromo e poi sui treni per la Germania? Madame Rosa da quella faccenda non si era più ripresa, e sotto il suo letto di ex ragazza da marciapiede conservava un quadro di Adolf Hitler che ogni tanto estraeva e osservava per ricordare a se stessa che da quando era tornata da Auschwitz “non aveva avuto altro che fastidi”. Ma poi, dallo spioncino era Cassano e i bambini allora l’avevano obbligata.

Chiesto di Mohammed, Antonio era riuscito a convincere Madame Rosa a deportare il marmocchio verso San Siro, con la sola condizione che Momò fosse accompagnato anche da Arthur, il suo amico-ombrello vestito da capo a piedi che gli permetteva di racimolare fino a venti franchi al giorno a fare il pagliaccio in rue Pigalle o rue Blanche.

Ai controlli pre e post tornelli, nonostante le garanzie del fantasista di Bari vecchia la Polizia italiana aveva fatto storie: l’ombrello vestito non poteva entrare allo stadio, spogliato invece sì. Quindi, attraverso la pancia dello stadio erano giunti alla panchina dove Cassano si era accomodato in compagnia di Amelia, Mexes, De Sciglio, Aquilani, Emanuelson e Maxi Lopez.

A pochi minuti dal fischio d'inizio tuttavia, la tragica notizia della morte sul campo del giovane calciatore del Livorno Piermario Morosini aveva azzerato la voglia di vivere alla maggior parte degli spettatori, e solo Momò aveva trovato opportuno raccontare ai panchinari rossoneri di Nadine, una bionda doppiatrice cinematografica incontrata per caso vicino a rue de Ponthieu che conosceva il segreto per far andare il mondo all’indietro. In fondo, era l’unica cosa da desiderare con tutto il cuore.
Rinviata la partita, Milan e Genoa l’avrebbero sostituita con un a loro avviso più rispettoso allenamento. Cassano e con lui la maggioranza degli umani invece, avrebbero pensato al miracolo di esistere, e alla fortuna di avere ancora una vita davanti a sé. Bisognava voler bene.

lunedì 9 aprile 2012

Il posticipo_Palermo-Juventus (Todo modo Mutti)


Seguendo le orme di un pittore, avevo deciso di trascorrere qualche giorno di riposo all’Eremo di Zafer. Ma giunto sul posto, avevo scoperto con sgomento che l’Eremo era stato trasformato dall’ambiguo Don Mario nell'albergo Miramonti, e che il fine settimana prescelto per la mia vacanza corrispondeva ad uno dei week end spirituali che politici, ministri, gerarchie ecclesiastiche e banchieri si concedevano per resistere al logorio della loro vita moderna. Dopo un lungo colloquio tuttavia, Don Mario mi aveva concesso di assistere al ritiro spirituale in qualità di scrittore poveraccio, non prima di aver ulteriormente tassato la mia busta paga di libraio per ripianare il buco di bilancio del Paese provocato dalla sua generazione.

Il tempo di miscelare l’acqua per il pediluvio che già era avvenuto un omicidio. Durante la recita del rosario, un colpo d'arma da fuoco aveva freddato il leader storico del più importante partito del nord, e pareva che la pallottola fosse partita dalla pistola di qualche magistrato. Dal vetro della mia microscopica camera senza balcone, osservavo con stupore stanco orde di forcaioli festeggiare ubriachi la scomparsa del corrotto politico di turno con l’ineffabile logica faziosa del più mortifero tifo da stadio. Le forche più disgustose, quelle di certi giornalisti indignati dimentichi di aver iniziato la loro carriera perché figli o parenti di giornalisti, oppure grazie alla consueta raccomandazione.

Religiosamente perplesso e realisticamente disinteressato agli sviluppi pseudodemocratici italiani, avevo pensato bene di sprangare la porta, versare l'acqua bollente nella bacinella azzurra e accendere la Tv, nella speranza che Don Mario da buon tecnocrate di Stato non avesse disattivato per ripicca tutte le parabole Sky dei dipendenti privati a 1000 euro al mese, salvaguardando invece come da copione quelle dei dipendenti pubblici. Poi mi ero immerso, mentre per fortuna sullo schermo Palermo e Juventus scaldavano cosce e polpacci per dimostrare sul campo chi avesse davvero diritto alla maglia rosa.
Per vedere una bella partita sono necessari piedi caldi. Di questo mi ero convinto, pensando al pittore di Todo modo che a sua volta ricordava la battuta di Voltaire relativa ai buoni dipinti, strettamente correlati all’elevata temperatura di falangi, pianta e collo piede.

Dentro lo stadio circondato da montagne, il Palermo aveva vinto la maglia rosa, ma perso la partita. Uno 0-2 firmato dal migliore in campo Bonucci con una spizzata di testa su calcio d'angolo e da un rasoterra a girare angolato dello scugnizzo Quagliarella, ormai guarito anche psicologicamente dal brutto infortunio al ginocchio. Con questo risultato, la Juventus di Conte poteva così sorpassare in classifica il Milan, sconfitto in casa da una solida e coraggiosa Fiorentina nonostante l’ennesimo rigore a favore (il nono stagionale), questa volta assegnato ai rossoneri dall’arbitro Celi per misterioso svenimento di Maxi Lopez in area di rigore.

Dalla finestra, adesso scorgevo il cadavere di Don Mario nel bosco, con una pistola accanto al corpo. La verità era sotto gli occhi di tutti, eppure nessuno era capace di vederla.
Avevo bisogno di prendere un po’ d’aria. Per quel che mi riguardava, avrebbe riso bene che l’avesse fatto per ultimo.

lunedì 2 aprile 2012

Il posticipo_Juventus-Napoli (La malora allegra)

"Tornammo su, con lui che si sforzava di salire adagio, per non perdermi d’un passo, e mi teneva sulla spalla la mano libera dal forcone ed ogni tanto mi grattava col pollice, ma leggero come una formica, tra i due nervi che abbiamo dietro il collo."  (Beppe Fenoglio)


Giunto al paese al primo scuro, Agostino aveva visto la sua casa giù verso Belbo che sembrava portare sul tetto tutto il peso del cielo. Suo padre era morto stupidamente mentre lavorava vicino al pozzo, scivolando sul pietrone e precipitando dentro con il peso della testa dopo aver esultato per la comunicazione radiofonica di una rete che poi non si era rivelata tale, quella del milanista Robinho contro il Catania.

Qualcuno l’aveva tirato su, in apparenza salvo, ma invece lo spavento gli aveva dato sul cuore. Agostino era rimasto solo con il padre, secondo la madre non abbastanza, visto che poi aveva dovuto fare il giro dei parenti di Murazzano e Buonvicino per avvisarli della sepoltura, provando pazienza al suo ritorno quando la bara era già stata chiusa. L’avrebbero messo sottoterra domenica, tra le due messe.

Il giorno del funerale, Agostino aveva pensato di buttarsi in un gorgo profondo a sufficienza, stremato dall’idea che nemmeno la morte del padre sarebbe valsa a cambiargli un destino di malasorte, speso a lavorare nei campi del Pavaglione come servitore del mezzadro Tobia. Ci aveva però ripensato, realizzando che decidendo per il gorgo a nove giornate dalla fine del campionato sarebbe stato per lui impossibile conoscere con esattezza il nome della squadra vincitrice. In fondo c’erano ancora 27 punti in palio e tutto poteva accadere.

Finite le condoglianze eravamo allora partiti con Agostino verso Torino, in tutto due ore di viaggio compresa la sosta presso l’azienda vinicola Marenco dove lavorava come corrispondente estero Giuseppe Fenoglio. Il solito bicchiere di vino prima della partita, questa volta un Barbaresco, la consueta speranza di riuscire a spiare il retro di quelle carte commerciali dove Beppe scriveva righe che avrebbero fatto parte dei suoi prossimi libri.

Allo stadio, la Juventus sbloccava il risultato al cinquantatreesimo grazie a un ginocchio di Bonucci che deviava sottoporta una girata di Mirko Vucinic. Quindi gli uomini di Conte dilagavano raddoppiando con un bel goal del migliore in campo Vidal, abile a disorientare con una serie di finte Campagnaro dai denti azzurri prima di calciare d’interno a effetto nell’angolo alto alla sinistra del portiere. Infine, toccava al napoletano Quagliarella a sette minuti dal termine fissare il risultato sul 3 a 0 con un tiro dal limite che passava attraverso De Sanctis sul primo palo.

Al mio fianco, Agostino senza voce era come un orfano felice mentre sfogliava le ultime pagine della sua disgrazia e cabalizzava riguardo al suo futuro: avrebbe detto addio all’insopportabile malora del Pavaglione. Sarebbe tornato a San Benedetto per lavorare la dura e avara terra di famiglia, a costo di mangiare solo pane e cipolla per tutta la vita. Ma non avrebbe avuto mai più un padrone. Avrebbe spiato sua madre inginocchiata al primo palo della vigna pregare un Dio disattento di proteggere suo figlio, che “è buono e presto sarà solo al mondo”. Bagnato di pioggia, avrebbe pensato a suo padre morto che si pigliava la sua prima acqua sottoterra.